Vite straordinarie

di Luciano Rossi

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L’oltre-uomo ha una vita diversa… ma da quali altre? Da quelle di chi chiede di restare nel già dato, di chi non chiede la trasformazione di sé, di chi chiede che la vita non sia viaggio. Né la sua vita, né quella d’altri.

Riflettiamo. Non sono forse, gli dei, una nostra creazione? Non possiamo forse spegnerli in un istante, qualora non li volessimo più. Ma, d’altro canto, non è forse, il divino, il nostro miglior modo di essere, la stanza in cui andare a soggiornare, per uscire da questa “troppo umana” immobile vita?

Noi siamo già divini; non dobbiamo chiedere di diventarli. La “clarità divina”, di cui parla Rimbaud, già ci appartiene. Già siamo, possiamo essere, “indifferenti alle stagioni”. Basta volerlo. Basta un assorbimento profondo in meditazione che liberi il Sé dalle sue scorie, dal suo marmo di troppo, dalla stanza oscura della casa. Operando in un modo iniziatico qualunque, fra quelli che la civiltà ha conosciuto (buddista, sufi, dervisci, quel che più ci aggrada), per raggiungere quello stato di divinità che noi già siamo.

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Indice dei contenuti

La Gnosi
Ma non è per sempre
Il gabbiano Jonathan
La vita di Milarepa
Lo zen e il tiro con l’arco
I monaci di Menfi

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La Gnosi

L’Apprendista di fronte alla Gnosi e al suo cammino iniziatico resiste, recalcitra, chiede nutrimento all’altro, chiede insegnamento. Resiste perché la Gnosi è faticosa. Gli viene insegnato (ecco il luminoso paradosso gnostico) che non ci sarà insegnamento. Gli viene chiesto di fare proprio ciò che ancora non sa fare. Egli sta lì come un figlio, aspettando di essere nutrito, passivo, come un peso morto. Occorre un modo particolare e arduo per convincerlo ad alzarsi e camminare. Non possiamo fare nulla con lui se non ci adattiamo alle sue strutture. Ma la disciplina iniziatica non ha il compito di adattarsi, bensì quello di trasformare; se si adatta all’apprendista lo lascia profano. E proprio qui sta il problema. Occorre gratificarlo per non farlo fuggire; e non gratificarlo per farlo avanzare. Se abbiamo fortuna, c’è una soluzione: esiste un desiderio dell’apprendista che può e deve esser gratificato, quello di identificarsi con il proprio potenziale di crescita. Questa è una gratificazione che lo farà avanzare anziché stare fermo.

Durante il Viaggio iniziatico avvengono tante liberazioni di energia legata a bisogni infantili; a partire da questa liberazione si ha la formazione di energia libera, ossia di energia che prima era impegnata in ansie infantili e che ora è divenuta libera e, come tale, disponibile per la creatività e la conoscenza di sé. Il viandante, l’iniziato, conosce questi sollievi, queste trasformazioni. Egli non ha bisogno di credere che tali trasformazioni avvengano; egli le conosce in prima persona, le sente in sé, anche se non le può mostrare. Come è noto, c’è chi sa perché ha visto e chi invece ha fede in ciò che hanno visto altri, nel sapere altrui. Ma quest’ultimo non conosce se stesso; conosce solo l’anima altrui. Sa davvero, solo colui che sa per esperienza diretta. Chi ha (solo) fede (in altri) crede superflua l’esperienza diretta, ossia il proprio lavoro, ossia, ancora, ciò che iniziaticamente viene chiamata “la grande Opera”.

Dall’albero della Gnosi nasce la conoscenza conquistata dal figlio con le sue sole forze, senza l’insegnamento del padre: un sapere che lo renderà simile al padre. Se viene portato in spalla resterà figlio del padre, non si farà mai i muscoli d’acciaio del grande Artiere. E che sforzo terribile per il padre lasciare che il fanciullo vada verso la vita con la sua corsa imprudente e la sua ingenuità che non sa ancora di ostacoli e trappole! Il padre teme di non essere un buon padre (e talvolta il maestro teme di non essere un buon maestro) se non è protettivo, se non precede il figlio nel pericolo. Ma non è così; il padre e il maestro devono seguire, devono guidare da dietro. Davanti all’Università di Basilea c’è una bella statua che rappresenta il Maestro e l’Allievo; il Maestro sta dietro, abbastanza vicino all’allievo per sorreggerlo se cade e leggermente a lato per vedere dove sta andando. L’allievo tiene la mano sinistra sul cuore e la destra libera, disponibile all’azione. Il maestro tiene le sue mani abbandonate in grembo in segno di sapiente inattività. Entrambi guardano avanti. Non è facile: né per l’uno né per l’altro. Dice Montefoschi [Essere nell’essere, Cortina, p.220]: “Per incontrarsi con l’altro, sul piano della conoscenza che insieme elaboriamo, il primo atto d’amore che ci si richiede è, paradossale a dirsi, abbandonare l’altro, nel senso di affidarlo al suo destino personale. Ma per compiere quest’atto di affidamento noi dobbiamo superare l’ansia e lo struggimento per il rischio e per il dolore cui l’altro deve sempre e comunque andare incontro”.

L’allievo deve andare verso il suo destino come noi siamo andati a suo tempo (e continuiamo ad andare) verso il nostro. Occorre capire bene il senso di questo “abbandono”. Forse lo lascerà cadere (se c’è abbastanza morbido) affinché impari cosa significa rialzarsi. Ma sarà sempre lì, vigile e amorevole, anche se talvolta avrà cura che questo non traspaia.

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Ma non è per sempre

Risulta da qualche storia dei cavalieri templari che all’iniziazione venisse chiesto loro se consentivano a fare un solenne giuramento. Veniva loro detto:

Se vorrete andare di là dal mare vi si terrà di qua; se vorrete restare qua, vi si manderà di là. Se vorrete risiedere ad Acri, vi si manderà a Tripoli o ad Antiochia o in Armenia. Se vorrete restare in Terra Santa, vi si manderà in Puglia o in Sicilia, in Lombardia o in Francia, in Inghilterra o in Borgogna, e dovunque abbiamo case o capitanerie o interessi da proteggere. E se vorrete dormire, vi si comanderà di vegliare; se vorrete vegliare, vi si ordinerà di riposare. Se vorrete sostare, vi si farà camminare; se vorrete mettervi in marcia vi s’imporrà l’attesa. E quando vi si imporrà di partire, non saprete mai perché né per dove. Siete certo, fratello, di poter sopportare tutto questo?

Ma non era per sempre. Una volta conquistati, l’assenza di desiderio e il vuoto mentale della grande pace, restavano per sempre, senza ulteriore faticoso apprendistato. Quando il lavoro di apprendista era compiuto, le privazioni e le rinunce non erano più necessarie, perché non vi era più, nella mente, alcun desiderio cui rinunciare.

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Il gabbiano Jonathan

Il racconto è una gigantesca metafora.  Volare, lo sappiamo, significa sollevarsi alle vette dello spirito. Jonathan in questo caso rappresenta chiunque desideri uscire dalla propria condizione naturale ed elevarsi, prendere un sentiero pieno di luce. È questo l’aspetto iniziatico fondamentale.

– La maggior parte dei gabbiani – dice Bach – non si dà la pena di apprendere, sul volo, altro che nozioni elementari […] Volare non conta, conta mangiare.

Per Jonathan lo scopo della vita è diverso. Lui vuole volare alto. Si allena strenuamente per imparare, anche se la tentazione di restarsene sul fondo, al buio, come tutti, ogni tanto lo assale. Per questa sua diversità viene allontanato dallo Stormo ed esiliato alle scogliere remote.

E lì, nel punto massimo del suo dolore, accade l’incontro.

Due gabbiani bianchi arrivano da Jonathan che è già sera: quando si è pronti e degni di ricevere l’iniziazione i gabbiani bianchi arrivano sempre. “Sono pronto” – dice Jonathan. E parte con loro per un luogo dove, finalmente, gli altri gabbiani la pensano come lui. E tutti i giorni passano ore ed ore ad esercitarsi nel volo, a cimentarsi in acrobazie sempre più difficili.

E così anche lui. “Proviamo di nuovo” – gli dice Sullivan, e ancora: “Riproviamo”, e ancora. “Non desistere mai dallo studio”.

Ecco in cosa consiste l’iniziazione reale di Jonathan; non in un esame di un solo giorno, ma nello studio e nell’esperienza di un’intera vita.

Ma per questo bisogna essere adatti… e i gabbiani iniziati vanno a cercare i gabbiani adatti alla grande opera: non li cercano presso lo stormo Buonappetito, ma alle scogliere remote.

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La vita di Milarepa

Tanto tempo fa, visse nel lontano Tibet un uomo chiamato Milarepa. Da giovane era stato un peccatore; ma per merito della sua vita straordinaria egli diventò in seguito il più grande mistico, mago e santo del suo paese.

Egli fece il suo apprendistato presso il maestro Marpa dal quale si era recato per espiare i suoi peccati.

Ma ciò che dapprima, sbagliando con giovanile quanto positivo entusiasmo, il giovane Milarepa cercò presso il Gran Lama Marpa fu la dottrina segreta che Marpa aveva ricevuta da Naropa e che Naropa aveva ricevuta da Tilopa.

Lo stesso Tilopa, l’antico pandit, era apparso in sogno a Marpa poco prima dell’arrivo del postulante Milarepa e lo aveva avvertito che colui che stava per giungere alla sua casa sarebbe diventato il più grande dei mistici. Marpa si prostrò al Grande Tilopa e si dispose all’attesa con venerazione per il grande discepolo che stava per arrivare.

E il giorno stesso Milarepa giunse alla casa del Maestro.

Quando fu alla presenza di Marpa il giovane si prostrò, prese il piede del Maestro, lo pose sul suo capo e disse: “Ti offro il mio corpo, la mia parola e il mio cuore”.

Così iniziò l’apprendistato del giovane Milarepa.

Narra la leggenda che i sacrifici, cui il Venerabile Marpa sottopose il giovane Milarepa, non ebbero l’eguale fra i suoi discepoli; tanto che l’adepto a più riprese si scoraggiò e spesso pensò di abbandonare la casa del Maestro.

Il Maestro lo rimproverava con rudezza senza lasciar trasparire minimamente la venerazione del suo cuore.

Quando Milarepa si sottoponeva con dolcezza ai suoi rimproveri e alle sue percosse, il Maestro dentro di sé si commuoveva e diceva: “Questa sottomissione e’ davvero prodigiosa”… e versava lacrime di nascosto.

Quando poi infine, sfinito nel suo corpo, nel suo cuore, e nella sua parola, il discepolo abbandonò sfiduciato la casa del Maestro, Marpa esclamò: “Protettori della religione, restituitemi il mio figlio primogenito” e si bagnò di lacrime.

Apparentemente inutili e disamorati appaiono all’occhio superficiale i compiti successivi che il Maestro gli chiese. Sette volte egli dovette costruire una torre e sei volte la dovette demolire. Sette volte Milarepa levigò pietre e le pose nei giusti cantoni; sei volte dovette toglierle e riportale alla cava.

Il suo corpo si riempì di piaghe, il suo cuore di pianto, le sue parole di lamenti. Sette volte questo accadde prima che Marpa gli rivelasse i segreti del Tantra.

Quando giunse il giorno tanto atteso, cosi Marpa gli parlò: “Figlio mio, fin dalla prima ora sei stato un discepolo in grado di essere istruito. […] Ma per purificarti dalle tenebre del peccato ti ho caricato del lavoro, via via più terribile, di costruzione delle torri. Ogni volta che ti scacciavo crudelmente dal numero degli ascoltatori e ti colmavo di dolore, tu non avevi pensieri cattivi contro di me. Per questo i tuoi discepoli avranno zelo, saggezza, pietà e compimento”.

Così si compie la storia di Milarepa, così uguale .. così diversa da quella del gabbiano Jonathan.

Provare e riprovare, aveva suggerito Jonathan. E anche Milarepa prova e riprova, ma non nel modo giusto; sarà il suo maestro a fargli scoprire il retto modo nella carne.

Milarepa è uno sciocco: desidera solo che gli venga rivelato, attraverso un’iniziazione formale, un segreto fatto di parole; chiede che gli venga sussurrata all’orecchio una frase magica.

Il maestro gli farà sudare duramente questo segreto che non è fatto di parole. Sarà il suo modo per rivelarglielo e fargli così capire che ciò che cerca lo scoprirà da solo. E lo scoprirà non in una frase, ma attraverso la relazione col maestro, relazione in cui l’assenza di risposte costituisce il segreto per trovare l’unica risposta personale possibile.

Se nel gabbiano Livingstone troviamo l’elogio del lavoro solitario e del volare alto, in Milarepa troviamo la pazienza di ripartire ogni giorno da zero, cosa che, lungi dal tenerci fermi, sola ci consente di camminare davvero. Sta proprio nell’umiltà di ripartire ogni giorno dalle aste l’evento dell’arrivare alla meta; l’umiltà di ripartire è il sommo traguardo. Siamo giunti alla fine quando accettiamo davvero di essere ancora principianti. Il fine è la distruzione della vanità, ossia dell’Ego.

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Lo zen e il tiro con l’arco

Questo racconto c’introduce al rovesciamento del comune modo di intendere l’insegnamento e all’apprendimento gnostico dell’arte reale. Il libro si cimenta in un’impresa molto difficile perché il rovesciamento che vuol raccontare non abita sulla carta. La carta è intelletto e il rovesciamento è esperienza. Nessuna ricetta di un cibo ci darà mai il sapore del cibo stesso. Le descrizioni si rivolgono al pensiero mentre le esperienze si rivolgono alle emozioni viventi. Così il rovesciamento è indescrivibile; e tuttavia, se non può essere descritto, può sempre essere provocato. Ma nessuno mai potrà provocarlo, da solo, su se stesso; dovranno sempre essere gli altri a indurlo in lui. Per questo è impossibile iniziarsi da soli fuori di una comunità o del sodalizio con un maestro.

Se il rovesciamento è provare dolore, invertire la rotta, andare indietro anziché avanti, smettere di ragionare, smettere di convincere gli altri, rinunciare all’autodifesa, alla cultura, all’intelligenza, all’importanza… se il rovesciamento è tutto questo, come potrà accettarlo la testa? Come potrà desiderare il contrario di ciò che ha desiderato sino ad ora? Non a caso la fuga in avanti, verso il supposto traguardo (che crediamo sia laggiù anziché dietro di noi), è l’abitudine più difficile da abbandonare. Questa fuga in avanti prende l’aspetto ammaliante della mania, stato in cui la personalità mana sente la sua illusoria fioritura, il suo benessere eccessivo e infondato. L’inganno consiste nel sentirsi arrivati, nel vedere una luce abbagliante là dove non ve n’è alcuna. Correre in avanti, fare carriera, è così radicato, così sintonico all’Io, da essere semplicemente e senza dubbio percepito come il Bene.

Cosa c’insegna invece Lo Zen e il tiro con l’arco?

Il tiro con l’arco non mira a qualcosa di esterno, mira al proprio centro: il bersaglio è il Sé. Come il bersaglio dell’iniziazione effettiva. Arco e freccia sono solo un pretesto per raggiungere qualcosa che potrebbe essere raggiunto anche senza di essi.

Come raccontare, come parafrasare all’apprendista le esperienze che liberano e trasformano sino al conseguimento dell’iniziazione reale? Di fronte a chi non ha avuto anche un’esperienza i libri restano muti. Ma per fare esperienza quante cose superare e lasciare dietro di sé! E per fare esperienza occorre cominciare a nuotare prima di saper nuotare.  S’impara a fare, solo facendo. Ma come?

Mi ritorna alla mente quel giovane sacerdote che era stato inviato nelle missioni e diceva con sconforto: “Ma come farò a portare la luce se io stesso non la possiedo”?  “Donandola l’avrai” – gli fu risposto.

Bisogna alzarsi e camminare. Semplicemente. L’iniziazione reale accade in ambito operativo. Occorre partire senza salvagente. I tentativi dell’apprendista devono prima naufragare, affinché possa conoscere a fondo il mare in cui nuota. E lì occorre reggere. Alla rabbia, alla paura, al dolore. A stare nella tensione senza fuggire. L’insuccesso è importante: solo da esso si apprende. L’idea stessa di successo ci è di ostacolo, una volontà troppo volitiva, la fretta. Ricordiamo Suzuki: se uno crede di aver raggiunto qualcosa, vuol dire che si è perduto.

“Quanto lontano arriverà l’allievo? Questo non preoccupa l’insegnante e il Maestro. Non appena gli ha mostrato la giusta via deve lasciare che proceda da solo.” Il Maestro non desidera nulla. Se l’allievo impara, bene; se non impara, va bene lo stesso. Se l’allievo saprà stare nel dolore senza rompersi imparerà certamente. Il tempo non ha importanza: “la via alla meta non si può misurare; che significano settimane, mesi, anni?”.

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I monaci di Menfi

Aspetta e lavora, veniva detto nei templi di Menfi, nell’antico Egitto. La paziente ripetizione a poco a poco compie il miracolo. Gli eterni preliminari producono improvvisamente il balzo in avanti. La ripetizione del rito provoca modificazioni inavvertite nel profondo. Occorre ripetutamente essere presenti all’altro davanti a noi. Come una candela accesa ne accende un’altra, così il maestro del tiro con l’arco trasmette la dottrina da centro silenzioso a centro silenzioso.

Racconta Schuré [I grandi iniziati, 1990, p.104 e segg.] la vicenda del pellegrino arrivato a Menfi, “dove periscono gli sciocchi che hanno bramato scienza e potere”; egli viene da terre lontane, “desideroso d’istruirsi ai Misteri […], di penetrare il segreto delle cose”.

Iside e Osiride, alla sua domanda, rispondono dall’interno del suo cuore con un sussurro incomprensibile. Egli bussa allora alla porta del Tempio per sentire dalla bocca dello ierofante, che certamente sa, il segreto, cui egli brama, con parole chiare e distinte. Sorprendentemente egli viene scoraggiato da una serie di ammonimenti: “nessuno sollevò mai il mio velo”, “la pazzia o la morte coglieranno chi è debole e malvagio”, “sei ancora in tempo per tornare sui tuoi passi”, ecc.

Dopo di che, l’allievo che non si lasciava sgomentare veniva lasciato solo: i maestri non gli davano alcun aiuto, non rispondevano alle sue domande; e il discepolo si stupiva della loro freddezza. Nulla gli veniva rivelato; “aspetta e lavora” era per lo più la risposta. E più la domanda persisteva, più il progresso dell’adepto si allontanava. Questo amorevole silenzio voleva presso a poco significare: “Non dipende da noi; la verità non si può donare. O la si trova in se stessi, o non la si trova affatto. Non possiamo fare di te un illuminato; devi diventarlo da solo. Tu intanto lavora e prega”.

Trascorrevano così i mesi e gli anni. Spesso l’adepto li credette inutili, finché un giorno cominciò ad avvertire in lui una lenta e incomprensibile trasformazione. […]

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