Quel fragile fiume d’amore

Breve romanzo giovanile.

INDICE

Il 12° Congresso Sandor FrankelIrina IvanovnaIl dono di séLa sceltaIl funereo canto

Non rinnego nulla di quanto è espresso in questi scritti
ma la loro forma mi è sempre sembrata sgraziata.
Sembra una grande vanità, e lascerebbe supporre
che gli altri miei scritti soddisfino ogni mia esigenza.
Debbo precisare che non è affatto vero? Soltanto
sono più sensibile alla goffaggini de Il Rovescio
e il Diritto che ad altre, che non ignoro. (A. Camus)

Capitolo I.   Il 12° Congresso

Il 2 settembre 1932 Sándor Fränkel va a trovare Freud.
Desidera leggergli il testo preparato per il 12° Congresso.
Freud però non ne approva i contenuti; gli chiede di

non pubblicarlo e di non leggerlo a Rosen. L’incontro
termina drammaticamente. Fränkel tende la mano a Freud,
ma questi, volgendogli le spalle, ne rifiuta il saluto ed esce
dalla stanza. Fränkel comprende allora che non potrà più
contare su di lui, sul Maestro, e che non può più indugiare,
che deve dire la verità al mondo, anche se il maestro lo avrebbe

per questo calpestato e distrutto. E la sua vita sarebbe finita.

(dalle memorie della moglie)

Rosen, 5 novembre 1932

“… allora compresi, anche se tardi, che non potevo contare sulla protezione di una potenza superiore, ma che al contrario sarei stato calpestato da questa potenza indifferente non appena fossi andato per la mia strada, anziché per la sua…”

Raggiungendo a stento le ultime file, l’esitante e stanca parola dell’oratore si diffondeva da più di mezz’ora nell’ampia sala del Centro Congressi. Era, questo, sistemato in un’elegante clinica della Turgovia. E in quel novembre del 1932 vi era riunito il solito “parterre de roi” psicoanalitico che ogni anno accorreva all’invito di Ludwig, il loro mecenate.

In prima fila c’era lui, Freud, la “potenza superiore”.

Egli stava in carrozzina, quell’anno; lo affliggeva una dolorosa sciatalgia che nemmeno l’abituale dose di morfina riusciva a mitigare. Aveva le gambe coperte da un panno pesante, e addosso il cappotto. Quasi sempre ormai sentiva freddo. Ma in sala non abbandonò neppure per un attimo la sua postura sdegnosa.

Per la verità a riscaldare il salone non v’era che una grande, ma insufficiente, stufa di ceramica bianca e sulle colline circostanti era già comparsa la neve.

La clinica sorgeva poco discosta dai quartieri alti di Rosen, appena fuori dalla cittadina alpestre, ai bordi di una nera pineta, in cui a stento il sole entrava traversando un pettine d’abeti. Il sanatorio, dove la medicina principale era il riposo e l’ozio, aveva invece intorno a sé un grande parco di betulle. Lì la vita era rallentata e un po’ depressa, a misura dei ricchi borghesi non intaccati dalla crisi del ’29. E quietamente depressa a sua volta, la stinta voce del relatore proseguiva.

“… io ero coraggioso e produttivo fino a quando mi appoggiavo alla sua potenza…”

Nella sala grande non era rimasto che uno sparuto gruppo di ascoltatori. Non tutti i partecipanti al congresso erano disposti a mostrarsi interessati ad un collega in odore di eresia. Non tutti volevano rendere omaggio all’allievo ribelle che stava ora parlando. Sándor Fränkel era da tempo diventato un collega scomodo. E pensare che il Maestro – nonostante tutto! – lo aveva avuto in petto a lungo, per mesi, per anni, come futuro presidente della Società internazionale, suscitando così la risentita invidia dei Fratelli. Loro erano, sì, Fratelli, ma solo lui era il Figlio. Solo lui, Sándor Fränkel.

Nell’annessa caffetteria dunque molti bivaccavano e Irina, la cameriera russa, stava loro servendo le solite bevande. Il suo astio era visibile: volentieri vi avrebbe messo la stricnina. Uno di quei gruppi era un assembramento di fedelissimi. Si trattava di quelli che l’esangue conferenza dell’analista ungherese non volevano ascoltarla. Erano certi che il suo futuro istituzionale fosse da un po’ senza speranza. Sachs, Jones, Abraham, Reik, Eitingon, tutti presenti a quel tavolino, lo detestavano. Ma lui, inviso al padre e ai fratelli, aveva deciso, sia pure con paura, di parlare. E di farlo al Congresso, dove gli era stato “proibito” di prendere la parola, di leggere la sua relazione. Da principio vi aveva quasi rinunciato, s’era messo a scrivere altre cose, a buttar giù un suo Diario clinico pieno di appunti riservati e scottanti. Ma ora, con estremo tremore e quasi certo sacrificio di sé, aveva presa un’improvvisa decisione, e proprio i brani del Diario stava leggendo, immolandosi sull’altare alto e cruento del dodicesimo Congresso. Perché in fondo…

“… non compiere la sua volontà equivale a morire. Ma compierla è forse esistere?”

Certo questo i fedelissimi non se lo chiedevano. Ansiosi e devoti, arroganti e pavidi, le loro paure erano ben fondate. Fuori della cerchia del Maestro si moriva, la “morte psicanalitica” li attendeva, e ad esser cacciati bastava ben poco. Solo all’interno v’era certezza di vita. E con questa, non trascurabili, i lauti guadagni. Freud pubblicava, affascinava il mondo e il mondo veniva a lui adorante. Ma il Maestro non poteva accogliere tutti i bisognosi. Inviava perciò molti dei pazienti a chi più, fra gli allievi, gli era caro. Per questo, andare a genio a Freud, era lo scopo della vita. Quasi tutti lo corteggiavano, lo adulavano, lo temevano. Occorreva dunque primeggiare fra gli allievi ed era in atto una guerra fratricida. Molti controllavano gli altri seguaci e, quando possibile, anche per inezie, li denunciavano al maestro. L’accusa riguardava anche i più piccoli segni di dissenso. Chi deviava in modo recidivo poi finiva per essere cacciato e perdeva così il suo posto nella Storia. Gli allievi scrivevano per essere approvati da lui e se infine gli consegnavano i manoscritti per l’imprimatur lo facevano con il terrore negli occhi. Nessuno osava pubblicare un manoscritto criticato da Freud e la ferita del rifiuto non si rimarginava più. Gli autori accettati sfoggiavano invece tutta la tronfia hübris dell’appartenenza. La prefazione di Freud a un proprio libro poi era una vera consacrazione.

La difesa della dottrina era necessaria, imprescindibile; il rogo degli eretici, giustificato. Credere allo stesso mito, partecipare allo stesso rito: ecco la vera vita. Il sentimento delirante che li univa era quasi religioso. Conoscere Freud dava un senso all’esistenza. Difendere Freud, significava difendere le proprie carriere, la propria agiatezza. Vi erano però altre condizioni necessarie per piacere al maestro: occorreva essere ascoltatori intelligenti e passivi. E nelle conferenze, o negli scritti, ripetere fedelmente le idee canoniche senza aggiungere spiacevoli innovazioni. Egli si aspettava da ogni membro una totale devozione.  Come ogni capo religioso, amava i fedeli ed era spietato con gli infedeli.

Poveri fedelissimi!

Così potenti… e così impotenti!

A un tavolo della caffetteria i cinque su nominati conversavano però animatamente. Ma non stavano più parlando del congresso. Fränkel era stato presto liquidato con poche battute ironiche. Non era quello che si faceva analizzare dai suoi pazienti? E che li baciava a volte e si lasciava baciare da loro? La tecnica sacra dell’astinenza ascetica, sacro baluardo contro gli infedeli, non era da lui del tutto stravolta? Che altro si doveva aggiungere?

Al loro tavolo, meno noto al pubblico della psicanalisi, ma ben noto agli addetti e da loro temuto per i segreti scheletri di cui era al corrente, stava anche Irwin Massler, il segretario dell’Associazione. Come tale aveva accesso a documenti riservati, per lo più lettere che il Maestro riceveva e spediva, atti segreti che rigorosamente archiviava. Erano questi segreti a metterlo in grado, ogni volta che lo volesse, di mordere, ringhioso, i nemici del suo padrone. E quel giorno l’acredine che aveva in corpo, e l’atmosfera propizia ai roghi, lo indussero a parlare.

– Fosse solo la tecnica del bacio! Voi non sapete… questo è niente. Ha avuto rapporti sessuali con ben due pazienti. Una è diventata poi sua moglie e l’altra, il che è ben peggio, è la figlia di primo letto della moglie stessa.

Parlava con astio. Quasi sdraiato sulla sedia distendeva le lunghe gambe sotto il tavolo spesso urtando il piedi di chi gli stava a fronte. Era di mezz’età, ma aveva l’aspetto rancido di un vecchio. La bocca grande, con gli angoli all’ingiù, il labbro inferiore sporgente. Occhi neri, opachi, infossati nell’orbita. Le grosse mani magre posate sul tavolo mostravano vene dilatate e sporgenti.

– E Fränkel non è il solo ad avere un passato opaco. Pensate a Jung, quando era ancora dei nostri; pensate a Tausk. Pensate a Stekel che introduceva, con la scusa della visita medica, le dita nella vagina delle pazienti psichiatriche. Pensate a Reich che s’innamora così spesso delle sue pazienti. Pensate a Rank, a Rado, ad Aichorn.

Ma non si accalorava, Massler, nella sua denuncia. Al contrario sembra stanco e triste. Le palpebre restavano basse e pesanti, lo sguardo spento, la bocca, appesa agli zigomi ossuti, veniva mossa appena.

– Ora però basta – disse a questo punto Jones. – Esternazioni solo dannose, queste. Il professore non ne sarebbe contento.

Massler si fermò. Era stato imprudente. Magari Jones sarebbe diventato un giorno, e forse molto presto, il suo presidente e avrebbe tolto alla sua boccaccia troppo aperta la custodia dell’archivio. E tuttavia, alle parole del collega, negli occhi di Massler passò, per un attimo, un lampo malizioso. Sapeva che Jones lo aveva fermato prima che potesse parlare di lui. Ma come lo sottovalutava Jones! Non sarebbe mai stato così ingenuo. Non avrebbe mai parlato dei presenti. Le persone accusate da lui erano state, e già da tempo, allontanate dall’Istituzione. Qualcuna era morta. Tausk, addirittura suicida.

Il cuore della conversazione si spostò dunque su un terreno neutrale, esterno alla scienza medica. Sachs accennò, con sollievo di tutti, alla situazione internazionale e all’assoluto ritardo con cui Hoover aveva sospeso le esazioni dei debiti di guerra ad Austria e Germania, dove già covava la ribellione.

Ormai nessuno sentiva quasi più che dalla sala continuava a giungere, lontana, la voce del relatore.

“… per chi non può ribellarsi la sola scelta è fra morire e morire, fra la morte della libertà e della dignità da un lato e una morte ben più concreta dall’altro”.

Ormai la situazione dell’occupazione e delle banche era divenuta insostenibile. Suicidi, carriere troncate, risparmi perduti, disoccupazione altissima. I senza lavoro si trascinavano ubriachi nei parchi dando fondo agli ultimi spiccioli per un bicchiere di birra. Disperati. E qualunque cosa era meglio della disperazione, anche la perdita della libertà. Così gli elettori in Germania avevano aderito l’anno prima al programma nazionalista di Hitler.

Per fortuna gli psicoanalisti, chi più chi meno, avevano ancora risorse. Pazienti e allievi stranieri, dotati d’ingenti disponibilità, accorrevano a loro. In quel buio 1932 c’erano ancora in giro persone che potevano pagare al Maestro venticinque dollari a seduta; e per sei sedute alla settimana! Tanto che lui, con quei proventi, era in grado di aiutare figlie e generi in momentanea difficoltà.

Privi dunque di problemi economici, Padre e Fratelli stavano concentrando i loro investimenti emotivi sulla purezza della dottrina, sui progressi scientifici, sulla coesione dell’Istituto. I controlli erano puntigliosi; non v’era scampo alla libertà di ricerca.

Si, io non avrò scampo… già ora il padre ha cominciato a uccidermi, già ora soffro di una grave forma d’anemia. E solo perché ho preso il mio sentiero e abbandonato il suo. Voi siete i primi a sapere del mio male.

Irina passò di nuovo vicino al tavolo; era bellissima nel suo dolore. Non era vero che i congressisti erano i primi a sapere della malattia di Sándor. La notizia dell’anemia lei la conosceva già da tre mesi. Lei sola sapeva. La malattia si era manifestata in agosto, appena arrivata quella lettera. Ma ora lui, la diagnosi, l’aveva detta al mondo, anche se lei non voleva. Non ancora, lo aveva pregato, non ancora. Guarirai! Guarirai, ti dico! Che t’importa di quel tiranno? Non ti basta il mio amore? Devi essere forte Sándor, non sei solo, amore… siamo in due! Insieme possiamo sfidare il mondo.

Sándor era ospite in clinica, come lei. Lui vi soggiornava da sei mesi, lei da tre anni. Marito e figlia, rimasti a Pietroburgo le facevano visita una volta all’anno. La depressione, lieve ma tenace, che l’aveva portata lì, ancora non l’abbandonava del tutto. Però Irina poteva ormai lavorare. Tutti i degenti della clinica, appena in grado, lo facevano. Così, da alcuni mesi, Irina serviva ai tavoli.

Prima che il matrimonio avesse logorato i suoi nervi era stata autrice di delicate liriche, appassionate. Ora, dopo il suo crollo, il suo animo investiva ogni energia e sensibilità nell’analisi personale. Per il momento era, e voleva essere, solo una paziente. Le vette in cui abitava Ludwig, gli impervi sentieri filosofici che lui percorreva, erano stati la sua via d’uscita. Ed era diventata per Ludwig, colta e sensibile com’era, un’invidiabile paziente, una di quelle di cui si attende con piacere la seduta.

“… ma il nostro maestro dice che i pazienti sono gentaglia, e vuole che io segua le sue orme, che anch’io li tratti senza amore. Non vorrai paragonarla alla forza dell’odio… sembra dire, con quel suo sguardo fosco. Ebbene io rispondo: è un delitto non abbracciare un bambino che piange; è come abbandonare il paziente per la seconda volta”.

Il dottor Fränkel aveva grande capacità d’amore. E l’incontro con la nobildonna russa fu come la confluenza di due grandi corsi d’acqua a formare un unico fiume che pareva a loro dotato di perenne inestinguibile ricchezza.

E quando Irina confessò al suo analista che amava, riamata, il dottor Fränkel, le grosse manone di Ludwig ebbero un vistoso tremito e per poco qualche goccia dalla tazza di tè che sorreggeva non si versò sul lussuoso tappeto. E se il lieve sisma si ricompose subito, a Ludwig restò la bocca aperta ancora per un po’. A cosa pensasse non è dato sapere. Sappiamo solo che considerava Irina ancora fragile, ancora incapace di sfidare il mondo là fuori, se avesse dovuto. Non era certo della sua fermezza nel perseguire ad ogni costo gli obbiettivi desiderati, ad onta del mondo intero.

Anche se Irina si illudeva del contrario.

Gli occhi azzurri, le nere trecce e lunghe, la pelle d’alabastro avevano ricordato a Sándor sin dal primo momento la propria madre. Ma ancor più bella della madre gli era apparsa quando, sei mesi prima, era venuto lì per riposarsi e scrivere il suo diario clinico, di cui ora, lì sul podio, stava citando dolorosamente alcuni passi. Diario che poneva sotto accusa l’analista “chirurgo”, l’analista classico, oggettivante, distante, l’analista che tiene il paziente sottomesso, piegato sotto il giogo insensato della regola della neutralità e dell’astinenza.

Egli si libra come una divinità impersonale sopra il povero paziente sempre bendisposto, sempre impotente a reagire, a criticare, ad amare”.

Irina gli era parsa sin dal primo giorno inaccessibile. Rasentava i tavoli regale, assorta, senza guardare nessuno. Ma a Sándor bastava contemplarla. All’inizio, prima che gli struggimenti gli mordessero le carni, la preferiva addirittura, questa lontananza. Fissava nella memoria i suoi tratti, come un pittore. Si perdeva nel suo muoversi fra le cose, aderiva ad ogni piccolo gesto. Addirittura affogare, avrebbe voluto, nell’azzurro dei suoi occhi, nell’incarnato ineffabile, nella morbida dignità delle sue labbra. E nient’altro, di meno puro, sostava nei suoi pensieri.  Lei nemmeno poteva immaginare il rispetto che un uomo come lui poteva avere per una donna. E per la verità nemmeno Sándor poteva immaginare la propria trasformazione, lui che era sempre stato misogino. Anche se abbracciava le pazienti, lo faceva perché il suo fragile fiume d’amore glielo imponeva, ma non ne aveva mai considerata una di loro come un’armonia perfetta, totale, nata per esser compresa solo da lui.

La direzione della clinica, Ludwig in particolare, aveva fatto di tutto per averlo nello staff. Ma inutilmente. Lui voleva solo riposarsi.

In effetti ne aveva veramente bisogno; da un po’ di tempo avvertiva una stanchezza sconosciuta. La disapprovazione della comunità scientifica lo faceva sentire male fisicamente.

Ma soprattutto voleva scrivere. Aveva un progetto e lavorarci lo caricava. Aveva qualcosa di importante da dire, ma non sapeva se doveva rivelarlo oppure no. Infine lo aveva fatto. Per alcune settimane aveva scritto con un’intensità sconosciuta, già ispirata dalla incantevole visione.

Talvolta Irina gli passava così vicino da sentirne il profumo. E però invano lui aveva cercato il suo sguardo.

In realtà non era vero che Irina non lo guardasse. La corrente dello sguardo di lui, guidata da una forza così spirituale, così intensa, così pura, era stata avvertita da lei; il suo campo di energia amorosa aveva preteso e ottenuto l’attenzione dell’amata. Così lei una volta, mentre lui era intento nella lettura, lo aveva guardato, non vista, più a lungo del solito. E la pelle diafana, trasparente della giovane donna, le si sarebbero dati trent’anni, aveva preso colore. Quello che aveva visto era singolare. In lui solo, fra tutti, scorreva un’orfica corrente d’ambrosia.

Non era un Adone, Sándor. Aveva solo un bel viso intelligente e intuitivo. Per il resto era di statura media, addirittura bassa. Aveva il volto regolare, sbarbato, pieno. Le labbra tumide, sorridenti, gli occhi a fessura, cerchiati da occhiali d’oro a lunetta ellittica, i capelli radi tirati a lato, le orecchie sporgenti. No, non era un Adone. E tuttavia l’espressione intensa, intelligente e allo stesso tempo accogliente, materna quasi e sempre disponibile, lo rendeva a modo suo attraente.  Anche lo sguardo in lui sorrideva, anche la pelle del viso. Il suo occhio d’aquila era il più acuto, il più abissale fra gli analisti del tempo. E tuttavia guardandolo meglio, il suo viso, vi si sarebbe vista un ombra lieve, un’esitazione, quasi un lieve tormento. Non sapeva, Irina, cosa l’avesse colpita di lui. Forse era stata quella corrente segreta, materna, così viva anche in lei, che l’aveva attratta in modo invincibile.

Che meraviglia sarebbe stata… essere ascoltata, compresa, curata, no! non curata… amata… da lui! Ma esistevano uomini simili? Ancora lei diffidava, dubitava, s’interrogava. Esistevano uomini così?

Ma dai! Sándor Fränkel! Esisti davvero?

Il treno che l’aveva portata fin lì da Ludwig, aveva attraversato regioni selvagge, e buie foreste, e orridi dal fondo lontano e temibile in cui scrosciavano, impetuosi, ripidi torrenti che lei, presa dal suo male, non aveva nemmeno visto. Poi la regione si era fatta più dolce e, verso la stazione di Rosen, più fiorita. Da lì, da quella stazioncina da favola, una piccola corriera si era inerpicata fin lassù, fino ai 950 metri della clinica.

Il marito che l’aveva accompagnata si era trattenuto con lei solo tre giorni. Poi se n’era tornato a Pietroburgo e lei aveva cominciato la terapia.

Dovevano passare più di due anni di nere abetaie e rigidi inverni prima del suo ristabilimento e prima che lassù giungesse, dentro gli eleganti abiti di lana del celebre dottor Fränkel, la dolcezza fattasi dono, il miele fatto persona, la cura fattasi amore. Tutto quello che il Maestro voleva cancellare. Proprio il Maestro che…

… unico fra gli analisti, ha sempre rifiutato di sottoporsi lui stesso ad analisi personale, poiché questa avrebbe mostrato al mondo che anche il re è brutto come tutti noi, perché una terapia lo avrebbe costretto ad abbandonare questa sua tecnica gelida dietro cui si nasconde, l’unica che possa usare, l’unica che lo faccia sentire sicuro nel suo grigio castello, compatto, duro e freddo, il solo che lo rassicuri, il solo dove nessun paziente osi contraddirlo”.

I sei fedelissimi nemmeno badavano alla voce che veniva dalla sala attigua. E neppure si volsero quando la porta della sala si aprì sbattendo con gran strepito e la carrozzina avanzò cigolando sospinta da una giovane donna. Il Maestro non aveva infine retto agli attacchi di quel… di quello che per lui – ormai non c’erano più dubbi – era un rinnegato. Era fuggito perciò dalla sala. A precipizio quasi. E ora avanzava verso il tavolo dei discepoli cupo e pieno di odio.

– Jones, si prepari lei, ora, a diventare presidente! – disse soltanto. E si fece portare in camera sua.

Cos’era accaduto? Non osarono chiederlo. Non se lo chiesero nemmeno fra loro. Non ne ebbero il tempo, del resto, ché intanto uno nuovo strepito, più alto del primo, si era levato forte nella sala e qualcuno già ne usciva di corsa. Sándor si era sentito male ed era svenuto trascinando il microfono con sé.

Irina e Ludwig si precipitarono all’unisono.

Quando arrivarono facendosi largo tra chi l’attorniava, Sándor stava già rinvenendo. Lo portarono in camera e chiamarono il dottor Platz, l’internista che lo aveva in cura.

Ludwig permise che Irina attendesse il medico insieme a lui e restasse presente alla visita: come analista di Irina conosceva la loro relazione. Ma mai aveva lasciato trasparire se vi fosse favorevole o meno.

L’anemia appariva aggravata e l’aveva reso molto debole. Questo il referto di Theodor Platz, che lo vedeva da agosto. Le palpebre parlavano chiaro. La pelle ora si presentava addirittura giallo limone. Alcuni giorni a letto, niente strapazzi. E una dieta ricca di fegato crudo.

Ricordò ai presenti, con la durezza marziale degli internisti, che l’anemia dà anche problemi nervosi, talora gravi, e questo sforzo congressuale, così rischioso, così competitivo, lui glielo aveva del tutto sconsigliato. Ultimamente Sándor aveva accusato vertigini come quella che lo aveva fatto cadere sul palco. Era apparso più debole, più pallido, più stanco.

Era stata l’uscita del Padre dalla sala, il suo sdegnoso volgere di spalle, a farlo svenire. Lo mormorò con un fil di voce. Aveva sentito una forte palpitazione prima di crollare.

– La maledizione del Padre mi porterà alla morte – disse.

– Su, su, queste cose non c’entrano nulla – disse l’internista con severità. E aggiunse: – Uno come lei! Scempiaggini del genere!

Per un po’ tutto tacque. Raggelata com’era, la stanza, da quel dire provocatorio e bellicoso. Lo guardarono tutti tre. Irina con odio. Quel naso aquilino da condottiero le era insopportabile. E anche le labbra strette e sottili erano di persona cattiva.

Infine, e penosamente, Ludwig parlò: – Va bene, possiamo andare. – E rivolto a Irina: – Resta tu con lui. Gli ospiti, lo sai, mi reclamano. Vorranno notizie.

In silenzio, Irina rimase.

Oh, ti amo, ti amo! E si buttò sul corpo esausto del vecchio confidente amico padre amante risorsa assoluta. Lo ama lo ama lo ama.

Sarebbe finita. Finita. Senza di lui, sarebbe finita. Lui era come l’aria per respirare.

Li separavano trent’anni e lei sapeva che tanta parte della sua vita l’avrebbe passata comunque senza di lui, coltivando solo la sua tenera memoria di uomo straordinario e gentile, la memoria dei fecondi anni, pochi ma intensissimi, passati assieme in un interminabile thalassico abbraccio… sì, sapeva dei tanti anni senza di lui, ma non ora, non ancora. Non ancora.

Lei non lo avrebbe permesso.

§

Capitolo II.   Sandor Frankel

Il postiglione aveva quasi gridato.

– Si prepari, signore! Quel bianco, scusi, quel palazzo lassù… quel palazzo bianco che vede lassù, in mezzo ai pini, quello è la Clinica.

Erano ancora a mezzo chilometro, ma già la si vedeva. Come nell’oceano si vedrebbe una dorsuta isola svettare. Era imponente la Clinica Rosen, e importante in tutta l’Europa. Era importante e lo aspettava, srotolando per lui il suo miglior tappeto rosso. Quello delle grandi occasioni.

Nel 1932 Sándor Fränkel, ch’era stato in infanzia malaticcio e forse mai guarito, era famoso in tutto il mondo ed ancora in attività, anche se mal portava su quelle spalle grassocce i suoi cinquantanove. Ma ad angustiarlo erano tante cose che la fama non compensava: un carattere timido, una scarsa salute irrisolta e soprattutto i molti dissapori coi colleghi, conditi questi, come se non bastasse, da infondate dicerie sul suo conto. Infatti colui che promosse la tecnica attiva in terapia, l’analista che riesumò il rilassamento catartico, il pioniere che suggerì ai pazienti l’idea e la possibilità della regressione thalassale, in altre parole quello stesso Sándor Fränkel che, il 5 novembre del ‘32, sarebbe svenuto durante la conferenza a Rosen, aveva avversari ostinati, le cui ragioni, anche le migliori, spiace dirlo, non brillavano certo in nobiltà.

Naturalmente col suo carattere fragile ne soffriva.

Ne soffriva anche nel corpo, quel corpo sempre stanco, incapace del più piccolo sforzo senza provare difficoltà di respiro. Causa, poi, dei progressivi peggioramenti negli ultimi anni era, paradossalmente, la predilezione del Maestro, che amava il fragile Sándor più di quanto non amasse gli altri discepoli, chiunque di loro; e questa oscura passione di Freud, cieca ad ogni convenienza politica, non teneva conto di nulla: né della fedeltà e ortodossia dei succubi, né della ribellione dell’eretico Fränkel. Capitava dunque che ogni volta, ad ogni pronunciamento difforme dell’allievo prediletto, ad ogni chiacchiera o accenno di un suo lieve o grosso scandalo, dopo gli immancabili mugugni, Freud gli perdonasse sempre.

Ma cos’era che rendeva Fränkel così caro ai suoi occhi, nonostante tutto? Non è dato saperlo. Si può azzardare che Freud avesse una dolcezza interna che gli era sconosciuta e che la proiettasse su Sándor?
Sta di fatto che sebbene Sándor avesse sviluppato un pensiero autonomo dal Maestro, e fosse inviso ai fedelissimi, Freud non lo aveva espulso dalla sua cerchia. Aveva fatto per lui una tormentosa eccezione. Del resto Fränkel praticava “in oscuro”; non pubblicava ancora il suo sistema. Una fragile natura teneva Sándor sottomesso a idee che non sentiva più sue. La sua anima, la sua educazione, venivano da lontano.

Fränkel era nato a Buda nel 1873, ottavo di dodici fratelli. Bambino dalle malattie frequenti e dai tanti consulti medici era un bronchitico cronico e un anemico stabile. E cosa si può fare dottore?
– Il mare! Non c’è rimedio migliore.
– Ma questo ragazzo è sempre stanco!
– Carne rossa, signora mia. Il ragazzo perde ferro per la strada, anche se sta sempre curvo sui libri. Gli dica di studiare di meno piuttosto. Non vede quel pallore? Signora, lo mandi fuori all’aria aperta. Non vede che unghie fragili? Non vede come è pallido? E ripeto: lo porti al mare in Italia!

Ma il mare di Sándor non ci fu.

E nemmeno sappiamo se il mare avrebbe potuto evitargli quella continua astenia, cardiopalmo, dispnea al più piccolo sforzo che lo accompagnarono tutta la vita. Ciò che si stenta a credere è come tale stanchezza abbia potuto convivere con una straordinaria vitalità, un’inventiva furiosa, un instancabile studio.

Laureato in medicina a ventun anni, divenuto primario neurologo a solo ventisette, aveva però incontrato Freud piuttosto tardi, quando di anni ne aveva ormai trentacinque, nel 1908. Era quello l’anno in cui Adler già deragliava dai sacri binari e Jung ancora era curiosissimo di Freud. Per di più, non essendo ebreo, addirittura era considerato una pedina utilissima ai bisogni della psicanalisi, accademicamente respinta e in odore sionista.

Fränkel entrò subito nel cuore di Freud: il Maestro amava le persone docili e fragili. Amava in loro le sue proprie fragilità. Inoltre queste non lo costringevano a reprimenda e fatiche. Così lo volle, unico fra tutti, vicino a sé come un figlio. E Sándor poté passare con lui, grazie a tale predilezione, le vacanze estive, il viaggio in America. Addirittura Freud gradì che il più giovane discepolo gli suggerisse i temi delle conferenze alla Clark University e, caso unico, che analizzasse i suoi sogni. Fu l’unico che Freud considerò, anche in occasioni pubbliche, il suo “caro figliolo”, sebbene la piccola differenza d’età che li separava non giustificasse del tutto tale appellativo.

Gli allievi migliori sono però sempre creativi e anche lui, come altri allievi di talento – pensiamo ad Adler, Jung, Stekel, Rank, Reich e altri – finì per dissentire da Freud su qualche punto. Ma lui, a differenza dei su nominati ribelli, aveva un bisogno vitale che il Padre, la potenza superiore, accogliesse e apprezzasse le sue deviazioni, la sua libertà. Voleva deviare e restare in famiglia, convincere Freud a venire dalla sua.

C’è una cosa bisogna sapere: chi vien guardato storto da Freud è un appestato per la comunione dei fedeli. Anche se era considerato un grande fino a ieri… basta non esser più guardato, salutato, cercato, basta che da ora crocchi appartati parlino di lui e o sembrino farlo, allora è come aver ricevuto un avviso di reato. Scende come un invisibile cristallo, terso e spesso come un muro, e tu sei di qua e tutto il resto della società non toccata dalla maldicenza di là, e di là tu non ci puoi più andare, sei marchiato, hai una stella gialla sopra il cuore, una lettera scarlatta sul vestito, esci dal carcere ma non dalla condanna. Quella è incancellabile. Si può venire assolti da un tribunale, ma non lo si è dalla memoria, dal sospetto, dai giorni di giudizio pendente,

E molte erano le deviazioni di Fränkel.

Sándor non era, come Freud, un filosofo ricercatore, un appassionato teorico, un terapeuta prudente e modesto; era un “curandero” coraggioso, profondo, abissale. O, come lui preferiva dire, thalassico. Timoroso nei mari della società, si mostrava temerario negli abissi marini della psiche. Il suo oceano era più tempestoso e orrido che non quello di Freud. Animo talentuoso e innamorato, il suo calore bruciò quelle ali ardite e potenti che il maestro tanto ammirava e invano aveva sperato a lui favorevoli. Invano Freud aveva sperato che il vento spingesse le sue vele nella sua stessa cauta corrente orizzontale.

La chiglia di Sándor pescava in acque profondissime e straniere dove ribollivano anime che squassavano la nave maestra. Motivi sufficienti di solito a Freud per cacciare un allievo. Ma nel suo caso la cacciata non c’era stata. Una rottura sì, come abbiamo visto, e anche brutta, quella del Congresso di Rosen, che causò tuttavia solo la perdita della presidenza. A separarli davvero sarà solo la morte dell’allievo. Il gesto potente, disamorato e iroso che sempre espelleva senza pietà i ribelli, con Sándor non ci fu. Fu iroso, immane, e null’altro, perché subito seguito dallo strazio del maestro nei giorni successivi.

Tuttavia, se pure non vi fosse stata una scomunica formale, anche dopo la sua guarigione, i due non si videro più.

Così la mancanza del padre, dell’amore del padre, e il sarcasmo dei colleghi, peggiorarono la sua salute. Perdite di sangue dal naso ne aveva avuto sempre, anche da bambino. Dopo la separazione da Freud si intensificarono. Il dottor Platz, l’internista che lo aveva in cura a Rosen, gli parlava della perdita di ferro (ancora?), del pallore di cute e mucose, dei bronchi peggiorati, delle febbricole, di un soffio al cuore. Le cose di sempre erano peggiorate ulteriormente, tanto da mettere in pericolo la sua vita. Ogni sforzo, anche una passeggiata, gli faceva mancare il respiro.

E sempre pensava alle forze che gli mancavano per un cammino autonomo e così irto di ostacoli. Eppure negli ultimi anni non si era risparmiato. Scriveva febbrilmente. Aumentava la durata delle sedute. E più procedeva e più il suo cammino si allontanava da quello del maestro.

Non potevano del resto esser più diversi i loro sbocchi. A volte si chiedeva come aveva potuto, egli, diventare così diverso da Freud? Eppure le ragioni c’erano.

Il vecchio Fränkel, il padre che aveva perduto all’età di quindici anni, era appassionato di letteratura e di arte; gestiva in città una libreria cui era annessa una grande biblioteca, che era diventata un polo d’attrazione per artisti e poeti. Sándor ebbe insomma la ventura di crescere in una libreria e diventare un insaziabile lettore.
Alla morte del marito, la madre di Sándor chiamò a raccolta la famiglia e ne fece un nucleo intellettuale e unito, in cui si facevano buone letture, si incoraggiava lo scrivere, si ascoltava sempre buona musica. Questo favorevole clima ispirò Sándor: egli scrisse con passione, compose poesie, dedicò un poema romantico alla madre. Tale particolare atmosfera non poteva che creare un uomo singolare: lui, il talentuoso analista.

Ma se un medico scrive un poema romantico, non possiamo certo immaginare che i colleghi lo sentano vicino a loro. O che Freud non lo consideri un perditempo. Invece lui, proprio a quei colleghi, si era avvicinato. Per suoi studi di medicina s’era trasferito a Vienna, a inseguire un importante destino, a contemplare un cielo limpido e luminoso, quello in cui campeggiava la stella folgorante di Freud.

Molti videro quasi subito che Sándor mancava di un carattere e di una struttura fisica adatta a sostenere un dono portentoso e pesante. Ciò che gli mancava era la capacità di sopravvivere da solo, senza un padre protettivo e liberante che lo autorizzasse a dissentire. Purtroppo la presenza accanto a lui di un Freud intollerante e rigido recò grave nocumento alla sua fragilità mercuriale.

Fu nel femminile che, lui misogino o in fama d’esser tale, cercò allora il suo conforto.

In realtà Sándor era un ben curioso incrocio, un ossimoro vivente. Nutrito di musica e poesia romantica da un lato, primario neurologo a soli ventisette anni dall’altro, preferì il primo sentiero. Sempre alla ricerca inquieta delle tiepide profondità a lui suggerite dal coito e dal sonno, egli discese col suo personale batiscafo analitico nelle profondità thalassiche e mitiche del ventre femminile e materno.

Era affetto da una dolce indolenza coraggiosa e tremebonda, da una sorta di buddhità amorevole e fragile, apprensiva e in definitiva impotente, sempre più pallido e anemico di misura che il suo impegno e la sua inventiva crescevano. Questa somma di contraddizioni fece sì che anche chi venne dopo di lui non riuscisse a classificarlo, così come non lo poterono allora i suoi colleghi. Incapaci di comprenderlo o seguirlo, di gareggiare con lui, che ne attirava ogni attenzione e li esauriva nell’inutile tentativo di inscatolarlo in un tipo univoco e da manuale, fecero quel che sogliono fare i meno dotati dalle spalle larghe: lo schernirono per le sue ambizioni, lo ridussero a zimbello.

Certo, difetti ne aveva: era insoddisfatto dei trascurabili, a suo dire, traguardi sociali raggiunti, era disturbato dalla mancanza di una struttura fisica adeguata, che era in fondo causa non ultima della sua incapacità sociale. E allora l’ambizione dovette segnare il passo, restare nascosta. Capì che il suo talento si sarebbe sposato meglio con l’amore, che era la sua cifra distintiva. Ma fino a Rosen la vita non gli aveva fatto questo dono, mai, e aveva dovuto pagare la sua lacuna col sintomo, che sempre compare prima o poi a render l’uomo onesto. E così la pretesa infantile emerse in Sándor sotto la forma di un bisogno enorme, thalassale, di cui l’amore restava un contraltare nascosto ai più, un insolito e generoso rovescio. La dolcezza e la capacità d’amare si sarebbero mostrate all’unica donna e all’unico uomo che lo compresero. Ma questo uomo, Michel Balint, doveva ancora venire.

Un’altra stranezza della sua natura era quella di contraddire la sua stessa teoria. Come aveva scritto Sándor, e il suo allievo Balint ancor più diffusamente, nell’amore thalassale il bimbo portatore del bisogno (e lui era questo bimbo) non ha alcuna capacità d’amare l’oggetto del suo bisogno.

Invece Sándor amava, amava. E con fremito, e passione. Sapeva l’innocenza del corpo. La sentiva. Di più: come un fragile fiume d’amore, lui… era l’innocenza del corpo. Fu questa l’attrattiva che più d’ogni altra affascinava le donne, Irina compresa, e ingelosiva i colleghi.

E lui, innocente, seguì la sua innocenza fino all’eresia: la tecnica attiva, il rilassamento neocatartico, l’analisi reciproca. Invitava i pazienti a far cose che aumentassero la loro tensione, a lasciar crescere il disagio fino a renderlo leggibile, a farlo diventare parola, a rimescolare il materiale profondo fino a farlo affiorare. In particolare voleva indurre il paziente ad immergersi, accompagnato dall’atmosfera rilassante, dall’amore e la fiducia dell’analista, nel mare profondo della sua esperienza precoce, quella vissuta prima che il dolore depressivo della frustrazione si affacciasse nella sua vita.

Credeva in una relazione analitica profonda, ispirata alla totale parità, tanto da concepire anche la possibilità di un’analisi reciproca. Tecnica rischiosa che solo lui sapeva adottare senza danno e che, a fatica, gli venne concessa. “Solo se lo fa Fränkel non ci sono pericoli”, ebbe a dire Anna Freud. Ma nemmeno questo lo aiutò: quel “solo lui”, dell’autorevolissima Anna, lo rese ancora più inviso.

Infine un’altra libertà si era preso, un’altra ribellione, destabilizzante l’Istituto, che fece infuriare i colleghi medici: il fatto che lui formasse anche, e forse prevalentemente, analisti non medici. La sua eretica società non medica che aveva costituito a New York fu costretto a scioglierla nel ‘29, due anni prima di fare la nostra conoscenza.
Inoltre nello stesso anno Groddeck gli aveva mostrato i successi terapeutici dell’incoraggiamento. Egli apprezzò, e addirittura in parte adottò, il nuovo orientamento, e tuttavia ancora continuò ad abbinarlo alla tecnica classica della frustrazione. Ancora alternò, a lungo, bastone e carota.

Ma ormai era convinto che il debito degli analisti nei confronti dei loro pazienti fosse un punto fermo. I pazienti, pensava, sanno sui loro analisti molto di più di quanto gli analisti immaginino. Un pensiero nuovo, tra l’eretico e il sognante.

La somma di tutte queste nuovi esperimenti lo fece diventare, agli occhi della comunità, non solo l’enfant terrible della psicanalisi, ma anche il romantico, il veggente, la madre, lo specialista dei casi difficili, il puer.
Sta di fatto che tanta abbondanza di giudizi negativi, tanta ribellione, tanto lavoro lo logorarono. Freud cominciò a rilevare in lui, e a sottolinearglielo, un precoce invecchiamento, cosa che turbò molto l’ungherese. L’invecchiamento, che tanto contrastava col suo personaggio di puer, era dovuto al sacrificio spossante, alla iperprestazione emotiva.

Non solo Freud, ma anche Jones riferì di una salute di Sándor fortemente compromessa già nei primi due mesi del 1930. Ciò era da imputarsi, a suo dire, alle divergenze sempre maggiori da Freud, divergenze che Sándor non aveva ancora il coraggio di affrontare apertamente.

Quando arrivò a Rosen, nel ’32, aveva davvero ormai bisogno di ricovero.

§

Capitolo III.   Irina Ivanovna

Fantine aveva le lunghe dita bianche e sottili della vestale
che muove le ceneri del fuoco sacro con una spilla d’oro…
il suo viso nel riposo aveva qualcosa di supremamente
virginale; una specie di dignità seria e quasi austera l’invadeva
d’improvviso in certi momenti, e non c’era nulla di più strano
e commovente che vedersi spegnere tanto in fretta l’allegria
e all’effusione succedere senza transizione il raccoglimento.
Quella improvvisa gravità, talvolta severamente accentuata,
somigliava allo sdegno di una dea. (V. Hugo, Les misérables)

Inaspettatamente, la settimana dopo lo svenimento, Fränkel si riprese.

Sorpreso, quasi adontato, Theodor Platz, il medico internista, non si spiegava il cambiamento. Ne fu invece beneficamente sconvolta, in modo straziante a vedersi, Irina, che qualche idea più del medico, sulla ripresa di Sándor, ce l’aveva.

Il sabato successivo, una settimana dopo il crollo, Sándor finalmente uscì dalla sua camera e scese in sala da pranzo. Freud e la sua corte se ne erano andati da un pezzo e la neve durante la settimana era diventata una presenza stabile a Rosenkreuz.

Sándor era al suo primo inverno alla clinica e il panorama non aveva più nulla dello splendore che sette mesi prima l’aveva accolto al suo arrivo. Allora la primavera era davvero in boccio, folgorava in ogni cosa, e in boccio gli era parsa anche Irina.

Mi riposerò i sei mesi previsti, si era detto, e magari anche più, se necessario. Ormai l’ozio, privilegio degli dei, se lo poteva concedere per sempre. I vantaggi dell’età, l’agiatezza economica, la distanza dai colleghi ostili avrebbero fatto il resto. Soggiornerò in questa valle piena di magia, guardata da monti dignitosi e abitati da silenziosa grandezza.

Ludwig lo aveva accolto nella clinica-albergo con indicibile piacere. La fama del grande ungherese era allora immensa; era l’uomo dei casi impossibili, disperati. I pazienti venivano a lui da tutto il mondo e presto sarebbe diventato presidente della Associazione internazionale di psicanalisi. Ma fino ad allora Ludwig non lo aveva incontrato mai di persona. Aveva sentito dire, non delle sue teorie che ben conosceva, ma dei suoi modi solo in poche occasioni: o nei congressi che si tenevano numerosi a Rosen, o in rapporti epistolari, o dai colleghi che riceveva lì nella sua clinica. Del resto Ludwig in clinica ci viveva. Era addirittura proverbiale la sua ritrosia a viaggiare.

Fu dunque sorpresissimo ed emozionato quando ricevette la lettera dell’illustre collega che gli chiedeva di essere ospitato nella sua foresteria per sei mesi. Motivo? Scrivere! No, no, stava bene. Voleva solo scrivere in pace, fuori dal mondo. E riposarsi.

Naturalmente sì, aveva risposto Ludwig. Ne sarei onorato.

La sera stessa del suo arrivo a Rosen, Sándor non aveva cenato. Era arrivato tardi, di malumore e la cena era già finita. Colpa dei treni, della carrozza, di un problema con valige e bauli.

Avrebbe dovuto riposare e rilassarsi. Invece cominciò a scrivere una delle lettere più difficili della sua vita.

Caro Professore,
sono giunto ieri a Rosen, presso l’ottimo Ludwig che ospiterà a novembre il nostro congresso internazionale. Io mi fermerò qui fino ad allora e scriverò qui la mia relazione ed altre cose che ho in animo di dire. Naturalmente gliela invierò prima di presentarla al congresso per avere il Suo benestare.
Come Lei sa io credo che i progressi della mia tecnica siano dovuti alle preziose indicazioni dei pazienti, il cui punto di vista per me è così prezioso. Sono sempre più stupito da come essi descrivano con tanta precisione il mio modo di atteggiarmi, di trattarli, di rapportarmi a loro. È diventato per me fondamentale correggermi seguendo le loro indicazioni. Se l’analista non è freddo e distaccato, essi si fanno coraggio e si lasciano andare ancor più a osservazioni e suggerimenti.

Ma mentre la penna continuava a scorrere esitante sul foglio, e i minuti passavano, cominciava a sentirsi sempre più agitato. Si accorse che il cuore aveva accelerato i suoi battiti. Come l’avrebbe presa il Maestro? Si sarebbe ancor più approfondito il solco che ormai da quattro anni si stava scavando fra loro? Non aveva dubbi che Freud si sarebbe adontato ancora una volta. E però lui, Sándor, già da tempo stava maturando, sia pure con tremore, la decisione di muoversi più liberamente, con maggiore autonomia, con minor timore di scomuniche. E dunque? Doveva tener fede al suo proposito. Che cosa importava se avrebbe tremato in ogni fibra mentre le sue dita dopo lungo esitare si aprivano e la sua mano lasciava cadere la lettera nelle mani del destino. Si trattava di “esserci” finalmente! Si trattava di vivere, come mai aveva fatto finora.

Ma anche ora, mentre scriveva, sentiva un movimento di stomaco, d’intestino, che mostravano quanta paura avesse del Maestro e quanto temesse la solitudine a cui lui l’avrebbe certamente condannato. Avrebbe cessato di appartenere alla comunità degli eletti. Convenne che sarebbe stato terribile. E tuttavia continuò.

Qual è il vero motore del cambiamento in psicoterapia? Non l’intelletto cui si richiama la psicanalisi ma l’affettività, quel rilassamento thalassico che rende risibile, inutile, impossibile l’appello alla ragione. La stessa totale calda quieta confidenza di due corpi che, dopo un incontro sereno e felicemente sfociato nel piacere completo, restano vicini, fidenti, mutati in un mondo mutato, cosa unica adagiata nella serena acquatica culla dell’Eden.

Si fermò nuovamente. Si sentiva… si sentiva stordito. Aveva un formicolio nel sommo della testa, che lo faceva sentire prossimo a svenire. Non poteva continuare a scrivere. A domani, si disse. A domani.

Non prese sonno facilmente e quando lo prese fu vittima di incubi ripetuti. Vi era sempre un adulto e un bambino e questi non si capivano, non parlavano la stessa lingua. Il grande parlava al bambino con le parole dei grandi, il bimbo non sapeva ancora parlare. Apriva la bocca, ma ne uscivano suoni arcaici. Il bimbo pareva senza possibilità di farsi intendere, pareva avvolto in un’assenza muta. Il bimbo non comprendeva. L’adulto non comprendeva.

Si alzò parecchie volte nella notte… eppure non aveva bevuto molta acqua la sera precedente. Dopo le cinque del mattino non prese più sonno. Sicché poté vedere l’alba affacciarsi pian piano alle stecche delle persiane e i mobili della stanza apparire sempre più alla sua vista restituendo all’esperienza del sentire e del pensare la solida presenza della realtà.

Il suo secondo mattino a Rosen era dunque in piedi prima del tempo. Poteva rinfrancarsi guardando la valle che arrosava e prepararsi lentamente al giorno.

Si lavò con morbidi gesti il viso come in un rito lustrale e si fermò alla fine guardandosi di sotto in su allo specchio, rigato ancora il viso di grosse gocciole tonde, per vedere se avesse del tutto ripreso possesso di sé e del giorno. Sì, non v’era dubbio. Sebbene gli paresse che il suo viso fosse pallido più del giorno prima.
La mattina era fredda e serena. Marzo, a mille metri o quasi, odora ancora d’inverno.

Accanto alla macchina del caffè armeggiavano due uomini, uno giovane e uno anziano. Antelucani come Sándor, dobbiamo concludere, visto che in cucina non c’era ancora nessuno. Alzarono entrambi il viso al suo apparire, con due espressioni diverse. Mentre l’anziano aveva l’aria di considerarlo un intruso, il giovane gli sorrise e lo salutò.
– Lei dev’essere… non può che essere…
– Sándor Fränkel
– Ah, dunque! l’ospite tanto atteso!
– Mentre voi siete…
– Io mi chiamo Alexander Deutch e il mio collega è il dottor Platz, Theodor Platz.

Theodor Platz gli strinse la mano di mala voglia. Sándor non ne tenne conto alcuno. Ognuno è così com’è e a lui questo stava bene comunque. Platz era responsabile di se stesso. Al suo sé, se voleva, doveva provvedere lui solo. Così tornò a sorridere al giovane.
– A che ora si fa colazione in quest’oasi di quiete?
– Fra poco. Fra poco compariranno le cameriere e tutto si risveglierà. Noi qui, io e il dottor Platz… a proposito il mio collega è internista e allergologo… noi due siamo sempre i più mattinieri e il primo caffè ce lo facciamo da soli. Quanto poi alla colazione, credo che lei sarà al nostro tavolo. Il dottor Ludwig ha senz’altro già predisposto le cose in questo modo.

Il dottor Platz non era di troppe parole. E magari, preso come doveva essere dai duri argomenti della medicina organica, l’illustre ospite non lo aveva mai sentito nominare. Era non solo digiuno di psiche, ma stando a lui non c’erano nemmeno prove che esistesse. Si congedò. Li avrebbe raggiunti più tardi a colazione.

Alla comparsa della factotum della cucina, ogni cosa si chiarì. Sándor ebbe il suo tovagliolo e il suo posto vicino ad Alexander. I due attesero che le colazioni venissero preparate conversando un po’ dei dintorni. Poi la porta della cucina si aprì con dolce cigolio e Sándor non poté impedirsi di voltarsi.

Ah, lo avesse evitato! Ai suoi occhi comparve un fiore di pesco in aprile, una rosa in boccio coperta di rugiada… un fiore in cui si adagiava ogni nostalgia di assoluto. E, assieme, apparvero ai suoi occhi Elena di Sparta, Carlotta di Werther, Giulietta Capuleti. Col loro carico di destino.

Era Irina Miskolc Ivanovna.

– Buongiorno Natasha – la salutò Alexander.
Ungherese di nascita, Irina era andata precocemente in moglie al commerciante russo Ivan Ivanovich e si era stabilita con lui a Pietroburgo. Ma né Pietroburgo, né la nascita del figlio Igor, l’avevano resa felice.

– Qualcuno fa una passeggiata?
Fränkel accettò l’invito di Alexander. La colazione lo aveva rimesso in forze e l’intenzione di fare lunghe passeggiate era una parte inderogabile del suo programma. La sua salute allora non era troppo inferma e le prime settimane compì ogni giorno lunghe escursioni col giovane collega, che gli aveva ispirato simpatia sin dal primo momento. Egli infatti, saputo della sua venuta, lo aveva atteso con trepida curiosità. Aveva letto ogni lavoro del grande ungherese e l’ammirava: per il suo coraggio, per la sua carica buona, e perché anche a lui, onesto e caloroso, riusciva facile metter in pratica i principi di quel maestro della psicanalisi. Così, ora che n’aveva l’insperata opportunità, desiderava avidamente conversare dei casi clinici con lui.

Era stato Alexander, nelle loro lunghe conversazioni a parlargli di lei come caso clinico, prima ancora che Sándor la vedesse. E addirittura prima che, pur avendola vista, bagliore divino sulla via di Damasco, venisse a sapere che quella folgore si chiamava Irina.

La paziente, aveva detto il giovane, aveva sofferto di una disforia tenace, una malinconia senza tregua, la tristezza di chi è chiuso in un destino senza via d’uscita. Il suo tratto primo era un’impotenza senza rimedio. Oppressa da un’etica insensata e devota che l’ancorava al già dato, si credeva destinata, obbligata, quasi per impossibilità logica, a restare appresso al suo dolore, alla sua vita sterile, a suo marito. Spenta, paralizzata, inerte, sembrava dire sempre e solo: io non posso, sono incastrata, non posso, non ho vie d’uscita.

– E il suo analista? Cosa fa per lei?

– Ludwig? – Il giovane sorrise. – Ludwig è un esistenzialista. Dice che Irina è stata gettata senza capacità di ribellione in un mondo troppo duro per lei. La sua depressione è il suo modo di essere nel mondo.

– Quindi riconosce l’impossibilità di Irina. A me pare piuttosto che da troppo tempo nulla la riscaldi. E che questo evochi e rinnovelli un freddo originario. E, se volete, questo è il mio consiglio: per molto tempo datele calore, amore. Amore soltanto.

Tuttavia Sándor ancora non l’aveva vista che per un breve istante. Prima di allora aveva dovuto immaginare, dalle parole del giovane, Irina come una creatura grigia e debole, che nessun uomo guardava, che il marito tradiva con donne più avvenenti e sane. O come una figura muliebre che rassomigliano a tappezzeria scolorita, di cui nessuno s’accorge.

Ma infine lui l’aveva vista! E la sua impressione era tutt’altra. Al giovane collega questo non lo disse. Da un po’ di tempo s’era racchiuso. Si trovava in un periodo di riflessioni importanti, pur se ancora non formate, e gli pareva di dover sospendere, nell’attesa, ogni giudizio, ogni pronunciamento, ogni previsione. Trattandosi del femminile poi c’era nella sua vita tutta una storia che forse il ragazzo non sapeva.

I suoi rapporti con il genere femminile erano stati sempre travagliati, confusi, instabili. Era perfino stato accusato di misoginia allorquando aveva recensito il saggio di Moebius sull’inferiorità femminile. E soprattutto aveva infastidito la comunità scientifica il dubbio che il giudizio di Sándor su Moebius non sembrasse affatto negativo. Complice la sua imago materna, si diceva presuntuosamente da parte dei colleghi.

– Amore soltanto? – si stupì il giovane.

– Sì. Studiando la regressione durante la terapia si constata che tutti noi abbiamo la fantasia di un’armonia primaria che ci spettava di diritto e che è andata perduta. È impossibile per chiunque descrivere quest’armonia primaria. Eppure tutti la vogliamo ripristinare. Sembra essere questo lo scopo ultimo di ogni aspirazione umana. L’identità finale di soggetto e oggetto. Il fatto che sia impossibile descrivere quello stato originario ci fa pensare che esso sia appartenuto ad un periodo in cui le parole ancora non esistevano. Si può supporre tuttavia che un bambino sano e una madre sana tanto s’adattino l’uno all’altra che una stessa azione li soddisfi entrambi. Ebbene l’analista deve costituirsi come madre.

Ma il giovane di quest’aspetto non sapeva nulla. Devoto, l’interrogava con garbo sui metodi clinici e ascoltava. O più spesso taceva finché nell’altro nascevano risposte alle sue domande inespresse.

– Naturalmente l’analista deve avere grande disponibilità. L’amore primario è un rapporto in cui uno solo dei due partner (il bambino) può fare richieste e avere pretese. L’altro (l’adulto o il mondo) non deve avere interessi, né desideri, né richieste proprie. Fra i due sussiste l’armonia completa, la completa identità di desideri e di soddisfazioni. È l’ambiente stesso che vuole adattarsi spontaneamente ai bisogni del soggetto. È l’oblio di sé della madre, del mondo, per amore del bimbo. È curioso. Ci sono altre situazioni che riproducono questa asimmetria. Situazioni in cui l’ambiente prova piacere a farsi distruggere, per esempio quegli stand dei Luna park che propongono, a chi vi passi innanzi, di demolire con gesto liberatore la mercanzia esposta, allo stesso modo che le madri si offrono al figlio per farsi svuotare. In tali casi l’armonia fra il soggetto e il mondo rimane, anche se l’individuo distrugge il proprio ambiente. Individuo e ambiente hanno lo stesso progetto: per il bimbo succhiare il seno e per la madre essere succhiata. La sensazione meravigliosa è che il bimbo sente che non c’è divergenza d’interessi fra lui e l’ambiente. Come se lui “fosse” l’ambiente.

– Ma ricreare questo paradiso in terapia non creerà una spirale inarrestabile di richieste?

– Può accadere, se non si ha arte sufficiente. In questi bisognosi d’amore la pretesa nei confronti dell’oggetto è assoluta. L’oggetto ci deve essere ad ogni costo, per il bimbo originario e per l’adulto fissato a questo stadio. Essi non hanno alcun rispetto, considerazione, riguardo nei confronti del donatore, oggetto che vien dato per scontato. Si aggrappano all’oggetto, degradato al rango di sostegno, di strumento. Anche l’adulto bisognoso, che a quel bimbo somiglia, s’aggrappa allo stesso modo. Ma per lui l’oggetto non è totalmente disponibile. Inoltre è solo un sostituto inadeguato dell’amnios. L’amnios è sostanza che sostiene spontaneamente. L’oggetto del fobico è invece un’entità riluttante a lasciarsi sfruttare. L’aggrapparsi disperato è dunque frustrante, umiliante, per questi pazienti, perché l’oggetto non li vuole. Non li vuole perché sono sgradevoli, devono sempre toccare, star addosso, montar in groppa. Devono farlo perché non sopportano lo spazio vuoto che li separa dal sostegno. Il mondo del fobico è fatto di oggetti che distano da lui, che sono separati da lui da vuoti spaventosi.

– Davvero affascinante questo nuovo modello.

– E però, badi, per ora è solo un’ipotesi imperfetta.

Queste ultime parole le disse con un tono conclusivo. Il tirocinante ovviamente fece tacere la sua curiosità clinica. In realtà nelle loro passeggiate non parlavano solo di clinica. Talvolta Fränkel gli raccontava cose più piacevoli, addirittura personali, oppure curiose, o ancora, ed erano le più ambite dal giovane, indiscrezioni segrete ai più. Si accorgeva così che lo interessavano le biografie, le notizie riservate sui colleghi più famosi, gli scandali di cui si mormorava. Forse gli erano giunti pettegolezzi anche sul suo conto, sulla sua discutibile tecnica dell’analisi reciproca, e anche su quella storia molto imprecisa di aver sposato una sua paziente e quelle indiscrezioni sulla figlia di lei. Cose che i colleghi disapprovavano apertamente per compiacere la sessuofobia del Maestro. Nella casa della psicoanalisi era terribile essere in contrasto col Padre. La propria carriera sarebbe terminata. Tutti, pochi esclusi, lo temevano. E così ne approvavano, ne adottavano la gelida tecnica vittoriana, la durezza emotiva e le conseguenza cliniche. Freud, il genio assoluto dell’intuizione teorica, dell’ipotesi ardita e brillante, e quasi sempre vera, era un pessimo clinico.

Di questa pecca il giovane fu sorpreso. Addirittura l’aveva scandalizzato la diceria che Freud odiasse i suoi pazienti e che una volta li avesse definiti “gentaglia”.

Così volgevano le loro passeggiate. Rientravano di solito, rinvigoriti, e di buon umore, poco prima di cena, appena in tempo per cambiarsi d’abito.

Fu proprio a una di queste cene che accadde, a due settimane dal suo arrivo. Dopo aver posato accuratamente il tovagliolo in grembo, dopo aver sistemate le posate che aveva scomposte, dopo aver rialzato gli occhi, la misoginia di Fränkel, o quei brandelli di sfiducia che ancora resistevano, andarono incontro al loro destino inevitabile. Esplosero, sperdendosi nell’eterea luce del nulla in mille minuscoli frantumi.

Quello che Sándor vide sollevando lo sguardo non era possibile descriverlo. Era un miracolo abbacinante che rendeva muti. Era un’immagine che non si poteva guardare. Irina era triste, sì, forse anche inferma, ma come lo può essere una dea. E diafana era, ma come può esserlo Euridice, dopo che l’impazienza dell’amante suo, mirabile sintesi di Calliope e Apollo, s’era voltato anzitempo a rimirarla.

Privo di parole o di pensieri percepibili, Fränkel restò lì, stolido, il bicchiere a mezz’aria. Lei camminava senza toccare terra, reggeva gravi vassoi come fossero piume, come se il destino o l’universo stesso operassero, nelle cose che lei toccava, una sottrazione di peso. Grazie e levità erano le uniche parole che gli venivano. Ma, mio Dio, quanto inadeguate!

E nacque in lui a quella semplice vista un calore ignoto, una palpitazione sconosciuta. Il suo cuore di vecchio cominciò a correre veloce, come mai prima volto ad una dea.

La dea serviva ai tavoli. Ma non al loro, da principio. E dunque poteva guardarla, amarla di profilo, in sospirosa assenza. Ebbene: il suo sguardo, lo sguardo d’Irina, pareva non posarsi su nulla.

Così la sua estasi iniziò. Cominciò a scriverle delle lettere che ovviamente non spediva. Trovava pace solo a fissare sulla carta i fugaci attimi in cui un ciglio di lei s’increspava, il suo stupore si faceva innocenza, il suo labbro diventava malia. Scriveva di Irina per sopravvivere al suo tormento, per scaricare la sua agitazione. Ma ben altri mestieri gli sarebbero occorsi! A chi ricorrere? A cosa? La sua mente andava allora spontaneamente a quel suo modo scolare di raccogliere dalla grande letteratura i suggerimenti straordinari che essa poteva dare. Ma come al solito ne riusciva scontento. Iniziava allora a cercare anche nella citazione memorabile il più piccolo difetto, una cifra un po’ diversa, ché quella trovata non era del tutto quella che occorreva. Gli sembrava che quelle stesse cose, se le avesse scritte un altro autore o addirittura lui stesso (terribile a dirsi! Era la follia che si affacciava) potessero dare una immagine più vera, più piena, più lusinghiera. Se lui stesso avesse cambiato qualche parola o invertite, posposte, rimischiate quelle dell’autore citato per ricavarne un ritmo diverso, un’ascendenza o una discendenza diverse, Irina avrebbe brillato di più alta luce. E lo faceva. Salvo il dì appresso mutar di sentimento e far discendere quel che prima aveva fatto salire.

Ma una volta gli giunse appagante e piena la nota pura di Fantine… e allora sì! Hugo aveva colto Irina alla perfezione. Forse al più avrebbe potuto togliere quegli incisi non necessari a Irina. Avrebbe potuto togliere quell’accenno al tratto verginale, alla castità, dal momento che scriveva di una donna maritata e madre, ma poi si disse che… no! anche quello stava bene a Irina e doveva lasciarli. Anche in Irina, come in Fantine, l’innocenza galleggiava su tutto.

E così si era messo a riscrivere Hugo: sentiva di dover togliere la spilla d’oro, quel “supremamente” che gli pareva enfatico, strano non dignitoso per una come Irina. Così annotò sul diario soltanto quel che segue:

“Il viso d’Irina è atteggiato per lo più ad una dignità seria e quasi austera che l’invade d’improvviso e a volte permane a lungo, ma non c’è spettacolo più commovente che lo spegnersi dell’allegria sul suo viso e al sorriso silenzioso far seguito senza lenta transizione il raccoglimento. Quell’improvvisa gravità, talvolta severamente accentuata, somigliava al rannuvolarsi d’una dea”.

Cosi pensava e scriveva. Come un adolescente.
E aveva 59 anni!
Cinquantanove. E vagava, solo, per i prati.
Portava con sé la dominante immagine per tutto il giorno, come stordito. Non aveva chiesto chi fosse quella divinità, né come si chiamasse. Se il suo nome fosse stato Euridice avrebbe preso, novello Orfeo, la paterna lira e sarebbe sceso all’inferno dei poeti. Invece non poteva che limitarsi a passeggiare nei boschi trasognato. Con una scusa qualsiasi aveva evitato da quel giorno la compagnia del giovane medico. La solitudine estatica del suo vagare pei boschi gli carezzava la fronte e gli ghermiva il cuore.

Il bel tempo intanto continuava, ma lui ormai più non lo coglieva, non lo sentiva. Era lui stesso il buon tempo, la primavera trionfante, la brezza azzurra, le nuvole errabonde. Ranuncoli, giunchiglie, papaveri ondeggiavano giovani nei prati, sospinti dal sospiro di un dio spiritale, nume disseminato nell’aria tersa in corpuscoli luminosi, sfavillanti. Pagliuzze d’oro nella brezza. E su tutta quell’armonia, Irina, celeste apparizione. Bella, eterea, come se nulla mai l’avesse toccata, nemmeno uno sguardo indiscreto. E Sándor vi si perdeva, come in un battesimo che si ha una sola volta nella vita.

Ma Irina non era sempre stata così. Al suo a arrivo a Rosen un male tetro accompagnava i suoi giorni e raramente lasciava la sua stanza. In quell’estremo e vuoto smarrimento non le sovveniva neppure l’immagine del figlio, come se non l’avesse più o non l’avesse mai avuto. Affiorava, sola, questa sì continua, la casa del padre. Il padre adorato. Tenero, come lei sensibile, come lei silenzioso. Le appariva addormentato, nel giardino odoroso, di selvatiche rose soffocato. Ah, quella pace irripetibile!

Ludwig andava da lei ogni giorno, per un’ora. Bussava piano alla sua porta, e così circospetto che a volte lei nemmeno lo sentiva. A volte Irina dormiva e lui restava lì senza svegliarla.
In silenzio, seduto. E rifletteva, solo, nella stanza.

– Suo marito – inevitabilmente concludeva.

L’aveva visto, all’arrivo. Buon dio, che uomo concreto, che “pelle” spessa, quali occhi opachi! Com’era stato possibile che lei lo avesse scelto? Mio Dio, per quali vie misteriose e inevitabili due persone s’incontrano! Non era forse, quel matrimonio inspiegabile, la nera sorgente da cui sgorgava il suo dolore scuro, la sua stordita assenza, lo stupore senza vita?

Lei lo aveva scelto; aveva caricato tutto sulle spalle per settimane, per mesi, per anni, infine s’era spezzata, come una corda rotta.

Tutto l’amore del mondo, gli aveva dato. Non era suo dovere? Tutto aveva sentito per lui, compreso per lui: l’armonia delle stagioni, il nascere e lo spengersi del sole. Lo aveva guardato come a lui era impossibile guardare. Gli aveva parlato come a lui era impossibile parlare. Aveva preso su di sé ogni pena, ogni peso. E lui, leggero, pensava che la vita è bella. E s’addormentava felice. Lei vegliava sul suo sonno. E le facevano compagnia tutti i pesi del mondo.

Sepolta dall’inutile attesa, la sua luce si era spenta a poco a poco. Ah, cieca e sorda! Non si accorgeva che stava a poco a poco morendo? La breve luce dei giorni che scandivano il suo mal essere nel mondo non era stata sufficiente a farglielo vedere.

Così Ludwig, a lungo, elaborava le sue intuizioni. Infine s’alzava dal suo capezzale e lentamente, senza svegliarla, usciva.

Le stagioni si susseguirono a Rosen. Fuor della sua finestra si avvicendarono i teneri fiori del melo, gli ardori del cielo estivo, la grigia orma dei rami nebbiosi, le nevi interminabili. Le stagioni sorelle a turno si affacciavano, sostavano, si dissolvevano. Una dopo l’altra, in uggiosa sequenza. Finché con esasperata lentezza, ma due anni erano trascorsi ormai, la sua notte volse al termine.

Cominciarono le prime passeggiate. Pochi minuti, dapprima, ché le belle fragili membra non reggevano nemmeno il suo piccolo peso. E sempre più la benefica quiete e la bellezza, che i suoi occhi posavano come un arazzo sulle verdi pendici boscose, infusero in lei la vita. Ludwig le disse che poteva iniziare una blanda attività, ricamo, disegno, ornare la clinica di fiori di stagione. Lei scelse di servire ai tavoli.

E lo faceva già da due settimane, quando Sándor arrivò.

– I nativi dicono che questa sia una montagna sacra. In effetti molti ospiti avvertono un deposito di sensazioni, di atmosfere, di insegnamenti. So che non potete credere. In effetti nemmeno io vi credo, sebbene a volte…

Ludwig era intimorito dalla figura di Fränkel. Se Sándor fosse stato uno scienziato puro, gli avrebbe opposto, mentalmente, dentro di sé, la propria statura filosofica e avrebbe concluso che fra le due non vi era sfida. Ma Fränkel era un fiume d’amore che ammutoliva l’astante e non si poteva afferrare o comprendere. E ora quel fiume era lì nella sua clinica a scrivere qualcosa che sperava conclusivo per la sua visione. La montagna di Ludwig dunque possedeva qualcosa che aveva valore anche per Sándor. E così gliene parlava…

– Lo stesso Tolstoi aveva progettato di ritirarsi quassù al tempo in cui qui fiorivano le utopie, i progetti di società senza classi. Vi erano leggende su questo luogo, che sono state poi dimenticate. È inevitabile però che nel nostro personale ospedaliero, infermieri, addetti alle pulizie, specie se non giovanissimi, portino dentro di sé questa cultura. Non si capisce se furono i rivoluzionari a formare questa montagna o se ne furono formati. Non si sa se l’anomalia sia spirituale o geofisica. Sta di fatto che qui passarono Joyce, Rilke, Gross, Bakunin, attirati da un paesaggio materno, dove il magnetismo terrestre ha un picco singolare. La leggenda dice che vi abita una divinità che risana, e la scienza, di questa divinità terrestre, ambisce a misurarne il potenziale magnetico.

Ma Sándor già sapeva questa diceria. Sol che lo rendeva pensoso. Così rispose: – Anch’io sono stato attratto, è vero, dal paradiso climatico. Ma anche preso da una più inafferrabile curiosità. Ora mi chiedo per esempio: che vi cercava Rilke? E che vi cerco io? Devo dirle che non mi pare assente qui il pericolo della confusione delle lingue, della regressione, della follia. Ho visto al Burghölzli parecchia gente che aveva perso il senno proprio qui. Persone molto interessanti… per me naturalmente! Io che ho sempre interesse per i casi difficili e molti regrediti ho avuto la possibilità insperata di vederli da vicino.

– Un interesse, mi pare, che Freud non condivide – interruppe Ludwig. – I pazienti regrediti non sono curabili per lui.

Un tasto doloroso, questo, che non mancava mai di sommuoverlo, perché Freud vuole usare con tutti, come solo strumento, la parola. In molti casi il disturbo nasce però in periodi antecedenti la parola. E dunque la tecnica va adattata, mutata.

Ma quante incertezze insistevano su questa materia e quanti conflitti con la comunità queste sue idee gli avevano procurato!

– Avremmo qualche caso anche qui da farvi vedere.

Sándor sorrise. Non se ne parlava proprio. Non aveva spazio interno per alcun paziente in quel momento. Il suo Diario e Natasha lo riempivano tutto come giorno radioso.

E ogni giorno, leggera, Natasha passava fra i tavoli. Già lui le moriva accanto da una settimana. Sapeva che si chiama Natasha. O almeno. Tutti la chiamavano così.
Ma quella sera era destinato a fare una scoperta sconvolgente. In fatti Ludwig alla fine della cena, quando gli venne servito il suo solito bicchierino, le disse: – Grazie Irina.
Al che Sándor sobbalzò. E non poté fare a meno di chiedere, quasi lo gridò: – Ma perché la chiama Irina?

– Ah, già! La verità è che Irina è il suo vero nome, anche se qui tutti la chiamiamo Natasha per la sua bellezza degna di Guerra e pace. E poi lei preferisce non essere Irina qui. Non vuole più identificarsi col suo passato.
Dunque quell’Irina di cui parlava Alexander era lei, la Natasha dei tavoli. Il nuovo nome era solo un esotico omaggio alla sua superba bellezza.

La mente di Sándor era in eterno subbuglio. Che idea s’era mai fatta di lei? Il lettore ricorderà. Aveva pensato, in forza del quadro clinico, alla Irina di Alexander come a una creatura grigia e debole, che assomiglia a tappezzeria scolorita, di cui nessuno s’accorge.

Perché mai il giovane collega non le aveva mai detto che era bellissima? Ah, i ragazzi! Come se la bellezza non fosse una categoria clinica!

Irina stava sempre meglio. La primavera avanzava e le sue passeggiate cominciavano a farsi sempre più lunghe. Immancabili naturalmente un libro e la fiorita panchina di maggio.

Sándor non la perdeva d’occhio mai, sia pure temprando il suo zelo con tutto il rispetto di cui era capace la sua anima fragile e gentile. Ma un giorno decise di forzare la propria anima schiva e di passarle accanto nello stretto sentiero solitario. Lei non avrebbe potuto non alzare gli occhi.

– Buongiorno dottore.

Quale serena tristezza e luminosa! E quel libro! Irina stava leggendo il Werther di Goethe. Forse ne era compenetrata.

– Buongiorno Irina.

Come non accorgersi che lo studioso aveva torto il collo per vedere meglio il titolo? Lei quasi aveva chiuso il libro per facilitargli il compito.

– Ah! Vedo che ha superato la metà. Forse già è giunta là dove Werther grida… no! Mi scusi non voglio anticiparle nulla.

– Non sarebbe un problema, non è la prima volta che lo leggo.

– Ah dunque! rilegge il Werther… e perché? In questo luogo poi, e in questo mese già troppo romantico. Tutto questo può scuotere anime delicate…

– Specialmente se si è nel punto in cui io sono e lei, Carlotta, dice… glielo leggo… “bisogna rientrare, è l’ora… e volle liberare la sua mano… ah, ella non sapeva quando ritirò la sua mano dalla mia”.

– Oh, la fine del primo libro… “tesi le braccia; ella sparì”.

– Proprio così. Ma lo sa forse a memoria?

– Certamente no. Ricordo questo punto perché è l’inizio della fine. Un punto in cui si vede quanto una donna possa essere crudele nel lasciare un uomo, anche se lo ha amato alla follia.

Con sorpresa Irina s’infiammò, e reagì con vigore.

– Ma Carlotta non ha mai amato Werther. Ella ama Alberto. Ogni donna che ami veramente non tradisce mai il vero amore che è il suo proprio destino.

– Oh, Irina, nella mia esperienza clinica ho visto molte volte queste sicurezze, così ferme nella tiepida e ipnotica dolcezza della sera, non sopravvivere alla fredda luce del mattino seguente.

Ma Irina scossa vigorosamente il capo. E disse, con una forza che la lascò spossata:

– No, io non potrei essere mai come Carlotta. Lascerei senza esitare marito e figlio per l’uomo che amo. Che vale mai dire “ti amo” ad ogni muover di foglia se poi questo amore non è tale da reggere alla prova dei fatti, della difficoltà, del dolore, da reggere insomma anche nelle condizioni più radicali ed estreme, da sfidare la morte e persino il discredito sociale?

Le sue guance si erano imporporate. Era ancora molto debole.

Sándor si scostò incredulo di un passo. Le sue pazienti avevano fatto spesso scelte diverse, ma era pur vero che non aveva mai visto in loro tanta fiera determinazione. Decise di lasciarle vedere allora tutto il suo stupore e la sua approvazione. E come in trance e senza chiederle il permesso, come un automa, si sedette senza quasi accorgersene sulla stessa panchina, accanto a Irina. E senza dire nulla, a lei tutto si converse e la guardò in modo che trasparisse la meraviglia che provava. Ma il viso di lei, fermo nella luce, gli restituiva tanta sicurezza che infine fu Sándor ad abbassare gli occhi sentendo che non sarebbe riuscito a sostenere a lungo quello sguardo che lo penetrava.

Tornato in camera si diede a riflettere sulla sua passata misoginia. Com’era stato possibile? È vero, non aveva incontrato mai donne straordinarie. Esemplare addirittura poi l’ultima lotta, la più vicina alla sua memoria, quella con Elisabeth, un caso ancora in essere, un caso che ancora lo torturava e per cui Freud lo aveva spesso deriso.
Del resto non poteva forse che attribuire a se stesso il fatto che i casi difficili capitassero sempre a lui, che era il migliore e non rifiutava i casi disperati?
Ma tornò al tema. Se può esistere Irina, come spiegare la misoginia? Forse quella sera avrebbe potuto aggiungere qualcosa al suo diario. E forse vi avrebbe scritto che la misoginia sarebbe un naturale sbocco se tutte le donne fossero come Ljudmila, sua convivente da dieci anni. Anni che erano stati un ruvido, assolato piazzale polveroso e vuoto. Né la mente, né il corpo, né il cuore. Né le amorevoli cure. Ecco! La sua compagna non aveva saputo dargli nulla. Nulla di nulla. Ljudmila era una di quelle donne deprivate che non sanno, non possono, non capiscono, negano ogni insufficienza. Nessuna istruzione, nessun messaggio, possono aiutarle.
Col tempo questa aridità, questa inutilità lo avevano prosciugato. E presto sarebbe sfiorito se la fresca rugiada dell’amore non l’avesse di nuovo irrorato. Ljudmila non aveva rugiada: né per lui, né per nessuno. Già. Perché l’aveva scelta?
Così Sándor era venuto da Ludwig per una parentesi, che quasi per certo non avrebbe mai chiuso. Non occorrevano atti ufficiali per sciogliersi da questa compagna che non era più compagna da tempo. O che, più correttamente, mai lo era stata. Bastava annunciarle il proprio ritiro. Le avrebbe detto che gettava la spugna e si arrendeva.

§

Capitolo IV.   Il dono di sé

Et nos amori cedamus – sussurrò Irina.
Sì… è scritto, cedamus – fece eco lentamente Sándor, e con occhi incerti appena sorrise. Poi, nessuno disse più nulla. Il crepuscolo
intanto cresceva lentamente sui tetti di Rosen.

I giorni che seguirono alla guarigione di Sándor furono sereni, intensi, pieni di sole; e i due amanti li dedicarono ai progetti futuri. Entrambi inviarono ai rispettivi coniugi la istanza di divorzio. E tuttavia, o con divorzio o senza, non si sarebbero più lasciati. Questo lo giurarono entrambi, solennemente. Sarebbero fuggiti lontano, senza lasciar traccia di sé. Avrebbero vissuto in una plaga deserta.
La passione fisica li aveva travolti già da tempo, poco dopo il mese di …

Ogni tanto lui si chiedeva com’era accaduto, e quando, che conoscessero la reciproca attrazione.
Dal giorno della panchina, il giorno di Carlotta, avevano preso l’abitudine di compiere lunghe passeggiate. Così accadde che una volta, allorché il sentiero s’era all’improvviso ristretto, ella posò il suo braccio sopra quello di lui, a sostenersi quasi o spintavi a forza dalla vegetazione esuberante. E non lo tolse più, quando il passaggio ritornò a slargarsi. E quando si guardarono ancora lo fecero, senza averlo meditato, con l’intensità e la perdutezza di amanti trascinati dalla corrente.

Iniziarono da quel momento a riconoscere il viluppo che li stringeva, e l’inevitabilità fatale del concedersi. Entrambi sentirono in quel momento d’esser entrati nell’anima dell’altro e d’esservi stati accolti. Anche se questo non era vero per nessuno dei due. Irina ricordava ad esempio come, fugacemente ma con intima certezza, avesse pensato un giorno, molto prima di allora, mentre lo guardava di spalle allontanarsi: egli sarà mio, lo voglio con ogni mia fibra. E come, dopo la scomparsa di lui dietro il fogliame, si fosse rizzata con fierezza in tutta la figura e l’arco delle sue reni fosse apparso, al Dio dell’Amore, più ardito e giovane.

Aveva invece rimosso che il suo corpo era stato percorso in quel momento da un freddo brivido di brezza, forse troppo prolungato, pur se intrepido, nell’ombra ormai scesa della sera. Preferì credere che si trattasse di un effetto buono, che fosse perché la giovinezza e la salute erano risorte in lei tutta, in quel momento, e tendessero con forza verso quel profondo insondato oceano di dolce intelligenza d’amore, quale Sándor era e che l’avrebbe con un sol gesto, una parola sola, sanata ed assurta a una grandezza pari alla sua.

E sempre gli occhi suoi lo cercavano: fra il fogliame, nell’ampie stese dei pascoli, nella hall della clinica. I suoi sensi, i loro sensi, tutti, sempre, erano esaltati quali solo nei primi giorni dell’amore è dato conoscerli. In lei, in lui, non eran più cessati. Né davan cenno di poter cessare mai.

E l’erba dei prati, dei sentieri, del giardino ben curato, parevano anelare la carezza del piede scalzo d’Irina. Persino le sdraio al sole sembravano esigere il corpo di lei.

E talvolta accadeva. Accadeva che l’erba e i cuscini ottenessero risposta al loro desiderio. E allora ecco, ecco che il corpo d’Irina era là nell’abbraccio rapitore. E allora ecco, ecco che per un attimo egli si sentiva venir meno, barcollava quasi, geloso nel contempo di vederla soltanto da lontano e che altri fossero più vicini a lei di quanto lui non fosse. Che altri fossero, più di lui, suoi fortunati amanti. Sì, perché tutti a lui parevano attratti da Irina, anche i più esclusi, i più sciocchi, i più distratti. In tutti essa attizzava il fuoco nei ventri sopiti. In tutti egli credeva potessero sorgere, sulla bocca rozza e banale, un commento ch’ella potesse ascoltare senza subito respingerlo od esserne addirittura lusingata. Credeva quei cervelli rozzi e banali potessero alla vista di lei ravvivarsi, diventare anime sensibili e parlarle con una sensibilità che lei potesse quasi accettare. Provava per la prima volta il tormento d’ogni amore. Se per la prima volta amava con trasporto pieno e ricambiato, altrettanto per la prima volta conosceva la gelosia e ne sentiva i morsi. Temeva la fantasia, l’immaginazione risvegliata d’ogni uomo che la guardasse. Non che Irina si prestasse, con gesto particolare, a provocare questo risveglio. Solo bastava il suo essere fatta così, l’eleganza del suo passo, e ahimè anche qualche tratto, a lei sconosciuto, che poteva far pensare alla sua nudità. Di più, al suo muoversi nell’intimità. E, con subita conseguenza, sporcarla d’immaginazione. Avrebbe voluto togliere a tutti la capacità di poterla immaginare a suo piacimento, la possibilità di costruire con la fantasia un intero amplesso con lei.

Quanto era sciocco! Ella viveva per lui solo. La simmetria loro era perfetta. Anche lei cercava solo lui. Nei sentieri, nell’erbe, nei giardini di Rosen ella anelava a lui solo. E, quando lo vedeva, una tepidezza intensa sgorgava dal suo petto, dal suo ventre e da lì s’effondeva, dilagava, come fiume esondante: e braccia, e gambe, e ogni più lontana provincia del corpo n’erano irrorate. Sì che il corpo pareva dilatarsi e non più riconoscersi secondo il suo consueto sentirsi. Così non sapeva più dire di sé e stupito taceva. E s’ingrandiva la valle, il bosco, e ogni cosa. Ogni cosa era come invasa da follia.

In questa follia che condividevano, le loro menti, i loro sguardi s’eran come fusi, e vedevano le cose del mondo allo stesso modo quando, stupiti, tolti gli occhi dal mondo, i loro sguardi tornavano a incontrarsi. Poi il dubbio tornava.

Certo, che lei ora lo voleva! Ma sarebbe durata quella passione nel tempo? Il corpo di Sándor, nelle maschili attrattive, stava invecchiando rapidamente. Irina lo avrebbe inevitabilmente confrontato con i suoi ricordi, o con i giovani corpi di altri possibili amanti, più prestanti e audaci nel proporsi.
Solo nell’alcova Sándor dimenticava i tormenti, quando sentiva che quel corpo, quella pelle tesa e marmorea era sua, sua soltanto. Ne seguiva con l’occhio pittorico le linee perfette. Sentiva che le dimensioni di quel seno erano le stesse della sua mano, fatti l’uno per l’altra.
Ma subito il pensiero a lui si corrompeva: altre mani d’uomo avevano quelle stesse dimensioni. A palme simili lei avrebbe potuto concedere di contenere il suo seno. E pensava al marito soprattutto, che già l’aveva avuta, a cui ella aveva dato il suo corpo diciottenne. Non riusciva a dimenticare anche un altro uomo di cui lei stessa aveva confessato l’esistenza e che ancora vedeva. Sì, Irina era sciocca, vanesia, debole, vuota. E allora una febbre terribile lo invadeva, il sospetto lo riprendeva.

Certi giorni poi ella era “davvero” diversa. Le scendeva come una tristezza che non nascondeva. Smetteva di sorridere. Gli pareva più fredda, più lontana. Per un attimo, involontaria, s’irrigidiva al contatto. Non sembrava più la stessa. Lui perdeva allora ogni certezza. Si era forse illuso? Doveva esser sempre lui a parlare del loro futuro? Perché lei lasciava cadere l’argomento? Mai una volta che prendesse lei l’iniziativa e si entusiasmasse. Mai che facesse progetti per il loro futuro insieme!

Ripercorreva ogni parola del passato e vi coglieva contraddizioni che ingigantiva. Tanto che il suo tormento cresceva, pensiero dopo pensiero. Ogni parola di lei men che perfetta lo avviava verso timori di possibili inciampi al loro progetto, verso possibilità di fantasmatici eventi contro cui nulla si poteva. E il suo cuore si gonfiava, in queste occasioni, di amarezza. I suoi nervi ne soffrivano fino al ritorno del bel tempo, scandito unicamente dal sorriso di lei.
Vi eran per lui due mondi, due cieli, l’amore e il tradimento, che s’alternavano e non poteva accendere e spegnare, o governare a piacimento.

§

Capitolo V.   La scelta

Dalla stanza veniva un vociar concitato.

E Sándor stava proprio passando di lì in quel momento, nel corridoio, innanzi alla camera d’Irina. Non riconosceva quella voce maschile che veniva da dentro. Non l’aveva udita mai. Fu preso tuttavia da un’apprensione viva, anche se non capiva quel che stava accadendo. Infine purtroppo un frammento gli pervenne chiaro, come un lampo nella notte: “Non ti concederò nessun divorzio; ti farò tornare a casa, vedrai, anche con la forza della legge, se necessario. Eserciterò ogni mio diritto”.

Sándor rimase impietrito. Con lei c’era dunque il marito.

Quando era arrivato? Non conosceva quella voce, ma il contenuto delle parole era inequivocabile. Sentiva che Irina era agitata, piangeva, a tratti gli rispondeva aspramente, gridava. Che Igor venisse qui, diceva. Impossibile, era la risposta; lui non lo avrebbe mai permesso. Lasciarlo in mano a una pazza? Lontano dalla sua protezione? Una follia!
Ma lei gli teneva testa.
Io non tornerò con te, non tornerò mai a Pietroburgo. Sappilo. Mai. Mai. Mai. Ho conosciuto l’amore qui in clinica, per la prima volta nella mia vita, e voglio restare con lui. Un amore grande e puro, quale nemmeno tu puoi pensare ch’esista. È ricoverato anche lui: per una malattia del sangue. Ora sta bene e stiamo per andarcene da qui, insieme. Andrò a Budapest, con lui. O forse resteremo in Svizzera, ancora non sappiamo. Il giorno stesso delle nostre dimissioni avrei preteso il divorzio e sarei venuta a prendere Igor. Ma tu mi hai preceduto.
L’uomo sorrise. Cinicamente.
– L’ho saputo, cosa credi? È per questo che sono qui senza mio figlio. E domani affronterò anche lui… questo, questo dottore… questo vecchio. Sì, mi hanno detto che è un vecchio. E ciò dimostra ancor di più, se fosse necessario, che ti è proprio andato il cervello in acqua, che non sei guarita affatto, che non hai più dignità. Vuoi passare una vita a far da infermiera?

Sándor si senti mancare e si appoggiò alla parete.

Non poteva più restare lì, innanzi a quella porta, nemmeno un minuto. Ritornò nella sua camera. A stento. Era d’improvviso svuotato. Incredulo. Ma se solo un momento prima era al colmo della felicità! E ora? Ora stava perdendo Irina? Avrebbe avuto, lei, così forte, e così fragile insieme, la forza di resistere alla legge degli uomini? la forza di lottare contro il pregiudizio? di lottare per avere suo figlio qui? Ma sì, certo! Avrebbe lottato! Non aveva detto, proprio lei, che, a differenza di Carlotta, avrebbe lasciato marito e figlio per l’uomo che ama?

Rientrò in camera. Dalla sua stanza, per quanto fosse attigua, non si sentiva più una parola. Irina stava ancora lottando o tutto era perduto?

Aveva la testa calda. Le tempie gli pulsavano. Che Joseph avesse ragione? Forse lui, Sándor, aveva fatto su di lei qualcosa di – non avrebbe potuto dirlo – di suggestivo, di ipnotico? Irina forse era affascinata non da lui, ma dal grande medico. E lui, per convenienza personale, aveva voluto ignorare questa possibilità, aveva chiuso entrambi gli occhi? Forse Irina a questo punto stava già crollando, e la dura realtà del mondo mercantile la stava ghermendo con i suoi artigli di aquila?

Non era così. Irina lottava ancora; con ogni sua forza.

– Ma che dici? Cosa sono queste assurdità? Senza di lui non parto, non vado in nessun posto. Non ti voglio seguire. Resterò qui. Scriverò a mio padre di portarmi lui mio figlio. Lui conta ancora qualcosa a Pietroburgo. Dunque è deciso. Con te non tornerò mai. A Pietroburgo mai più.

– Non ti illudere, mio figlio non lo lascerò partire.

– Questa la vedremo. Non dimenticarti di Minsk. Ho le prove di tutto e tu lo sai. Non dimenticarti del giudice Jodorowski e del suo debito verso mio padre.

Farneticava, cieca com’era nella sua risoluzione. Come poteva pensare che Jodorowski avrebbe violato la legge per amicizia?

E tuttavia lo sperava.

– Stai tranquillo. Il giudice è amico di mio padre. Ho buoni argomenti per ottenere il divorzio.

Questo avrebbe detto il giorno dopo a un Sándor ormai crollato, per trasmettergli il suo dramma, ma tranquillizzarlo insieme. Renderlo abbastanza forte da affrontare suo marito e opporgli le sue ragioni. Sapeva che, pur debole, lo avrebbe affrontato.

L’occasione di incontrare il marito si presentò spontaneamente il giorno dopo. Joseph bussò alla sua porta e gli annunciò la loro partenza. La perorazione di Sándor fu accorata, fatta con tutte le poche energie che gli restavano.

– Farla tornare a Pietroburgo equivarrebbe a ucciderla. Lo stesso accadrebbe a separarla da un ragazzo di dodici anni che sta soffrendo. La prego. Lasci venire qui il ragazzo. Non costringa entrambi all’infelicità. Lasci che le spieghi. Se lei ora sa di me, se ora ha preso informazioni e il mio nome le dice qualcosa di più, può forse credermi se le profetizzo (nella concitazione Sándor usò questa sciocca parola) che la madre morirebbe a tornare in Russia vicino a Lei, chiusa in un matrimonio che – le assicuro che non sto addossando a lei, Joseph, la colpa – è la causa prima della sua infelicità, e il ragazzo, così sensibile, a dar retta a quanto lei stesso mi dice, ne resterebbe segnato per sempre. Lo faccia per lui. Almeno per lui. Potrà fargli visita ogni volta che desidera e raggiunta la giusta età Igor potrà fare l’università a Pietroburgo e vivere lì per sempre. Mancano cinque anni, non di più. Resterà un vero russo. Ah, potesse lei vedere le cose come io le vedo! Irina non può tornare con lei. La donna che lei crede sua non lo è più da troppo tempo. Non lo è più da quando il suo vuoto dolore – e lei, suo marito, non è privo di parte in questo – ha posto il seme della depressione nel suo cuore, molti anni prima di approdare a Rosen. E qui è guarita, anche perché toccata dalla grazia della lontananza e dell’amore. Lasci liberi questi due esseri, lasci che la vita possa scorrere serena anche per loro. Questi due esseri potrebbero starle vicini solo se in catene. Lei può solo possederli. Non posso sopportare tutto questo, né sopportare che lei non lo veda, non lo capisca, non si riconosca come causa del loro male. Forse causa è eccessivo, ci vuol comprensione anche per lei, che non ha lo stesso animo, lo stesso sguardo verso la vita. E in questo le sue ricchezze non l’hanno certo aiutata. L’hanno al contrario accompagnata verso un mondo mercantile e, mi perdoni, verso la bruttezza. La stessa in cui vorrebbe ora far vivere figlio e madre.

Per tutto il tempo Joseph era rimasto impassibile. Aveva sentito la perorazione, la supplica dell’amante della moglie con una sorta di ottusa indifferenza. Della moglie, del suo tradimento, poiché era avvenuto lontano da Pietroburgo, non gliene importava nulla. E per tutto il tempo tacque. Poi scoppiò in una risata ciclopica.

– Lei sarà anche un gran professore, ma per me è più che altro un gran coglione. Come può credere che mia moglie sia davvero innamorata di un vecchio come lei? È solo la situazione della clinica a giocare questi scherzi. Irina non ha la testa a posto. Una volta a casa si scorderà di tutto. E questo dovrebbe saperlo meglio di me. Perciò si tolga di mezzo. Se non lo farà le farò passare guai più che seri. La prenda come una minaccia.

Sándor si sentiva male. Le estremità gli formicolavano e non avvertiva più le dita dei piedi e delle mani.

– Parlerò con Irina – rispose ormai senza forze – e se lei vorrà partire senza di me non ostacolerò la sua scelta.

Poi affranto chiuse gli occhi e ascoltò il mutar del suo sangue. La malattia sopita si stava risvegliando.

Ben più solida era la tenuta di Irina. Sicché Joseph usò l’ultima sua arma:

– Dunque sei irremovibile. Sappi allora che in questo caso ho un altro motivo per chiederti di tornare. Non volevo dirtelo subito. Desideravo il tuo ritorno spontaneo. Volevo saggiare la tua affezione alla famiglia, ma poiché questa non c’è, allora sono costretto a dirtelo. Igor è un malato psichico. Malato come te.

Urlo!

– L’arrivo della pubertà lo ha segnato, ha risvegliato in lui quel fantasma che dall’infanzia era rimasto addormentato. I medici dicono che ha bisogno della madre. Lui poi non vuole andarsene dalla sua casa; si sente un po’ sicuro solo lì. E io non oso, non voglio, scontentarlo. Ho paura di un suo peggioramento.

La decisione di Irina divenne inevitabile. Straziante era comunicarla a Sándor. Cercò a lungo le parole, ma non le sovvennero che queste:

– Il mio cuore non ha dubbi. Il mio posto è accanto a te. Ma vedo i visi dei miei vicini, sento le loro voci. Il mio dovere è tornare a Pietroburgo; questo dicono gli occhi e le lingue mute degli uomini. Perciò non ho scelta, devo andare. Andare via, contro il volere dell’universo che urla nel mio ventre. Vado. Contro le mie promesse e contro ciò che è scritto a fuoco ormai nella mia carne. So che non avrò pace per questo finché vivrò… Devo andare, Sándor, non capisci? devo andare, non ho altra scelta.

Infine, sconvolta dalla incomprensione, usò l’unico argomento, estremo e mendace, che poteva ancora convincerlo, farlo arrendere…

– Alla luce di questo fatto distruttivo il mio cuore si è prosciugato, l’amore non riesce più ad avervi stanza, non vi sono più corde che possano ancora vibrare – gli disse mentre ogni fibra le urlava contro il suo diniego – non ti amo più, Sandor, (amore mio)!

Soffocò le ultime parole. Sapeva che lui avrebbe sentito… avrebbe sentito che il cuore di lei urlava il contrario: ti amo, ti amo, ed è continuo strazio. Ma anche il cuore di lui si era indurito. E non udiva più le voci sottili del corpo.

– Ah, dunque! È questa la verità alla fine? Che vale mai dire “ti amo, ti amo” se l’amore non è anche nei fatti, nelle fatali decisioni.

Possibile che lui non capisse? Lei doveva tornare alle sue responsabilità. Il marito non le concedeva il divorzio. Uomo influente in città, aveva ottenuto un’ingiunzione del tribunale di Pietroburgo di farla curare nella clinica locale, se avesse bisogno. Ma tutto ciò non avrebbe avuto ancora valore per Irina. Ma c’era la terza cosa, strazio invincibile del viscere materno… il figlio, caduto in uno stato di prostrazione profonda, che chiedeva ora della madre, e che non poteva lasciare Pietroburgo…

Il grido di Irina fu altissimo. Tutto, tutto, avrebbe sfidato, superato, divelto, ma non questo.
Il figlio!
Il figlio era tornato sulla scena. Con i suoi diritti divini. E aveva bisogno di lei.
Era tornato a risvegliarla. E una memoria biologica che è sola dell’uomo, non degli animali, tanto da parere più culturale che naturale, si riaffacciò e le rammentò del figlio.

Vagava, sola, nella clinica.

Il figlio. Malato forse del suo stesso male. Questo il disegno con cui il destino l’aveva afferrata e richiamata ad una vita di nuovo incolore. Guardava muta i monti che l’avevano vista felice. Vedeva la natura ancora risvegliarsi, indifferente, come se nulla fosse accaduto. Toccava ora con mano l’indifferenza dell’universo ai suoi bisogni, ai bisogni di tutti. Non v’era alcuna possibilità di uscire dal suo destino. Doveva dire addio a Sándor, la cosa più bella che l’esistenza le aveva dato mai. Sándor, la sua stessa vita. Sándor che era precipitato nell’abisso della malattia del corpo non essendo capace di impazzire nella mente. Sarebbero morti entrambi, lo sapeva. Perché la vita aveva in serbo solo questo per loro.

Purtroppo lui non capiva la sua abnegazione, l’accusava di viltà, non le concedeva la benedizione ad andare. La maledizione invece sì. Quella la riceveva dal destino. Quella l’avrebbe accompagnata per sempre. La maledizione di sapersi colpevole della sua malattia mortale. Lei stessa con la sua partenza avrebbe ucciso Sándor, l’unico che le avesse aperto l’anima, che le avesse immessa nella vita.
Perché non capiva? Perché?

O forse aveva ragione lui nel dire che prima viene la vita e poi l’onorabilità. Che lei non contravveniva ai suoi doveri. Anzi voleva fortemente Igor con sé. A fermarla era in fondo la condanna della sua città quando avesse saputo del suo reato, della condanna del giudice a privare, lei e il figlio, di ogni bene.

Ma come poteva, oltre al disonore, condannare alla povertà anche il figlio? Come poteva condannarlo a sapere di avere una madre disprezzata e vilipesa in tutto Pietroburgo?
E oscillava, oscillava. Lacerata fra le opposte rive.

Sándor tuttavia voleva vederla, parlare ancora. Doveva. Anche se il ragazzo non stava bene, a maggior ragione… si poteva curare lì, o a Vienna, a Berlino, dove lei voleva. Il ragazzo non sarebbe stato ridotto in povertà. Lui era ricco; avrebbe mantenuto anche loro.

Ma lei sembrava fortemente decisa ad andare, e di più, decisa ad allontanarlo da sé nei pochi giorni che mancavano alla partenza. Temeva. Temeva che un loro incontro mostrasse che la sua volontà era debole, la decisione fragile, gli argomenti contrari potenti. Sándor non sapeva. Non sapeva quanto lui, il suo rozzo marito, potesse essere vendicativo. Lei aveva Minsk. Ma lui aveva la prova della sua colpa… e poteva dirlo al figlio. Questo non doveva, non poteva, accadere. I tradimenti degli uomini contano di meno, purtroppo. Del suo, il figlio non doveva sapere. Finora a questo punto non vi aveva mai pensato. Sapendo che lui non l’amava più, che la tradiva con grossolana leggerezza, era stata certa che l’avrebbe lasciata andare. E invece no! D’improvviso lui la voleva. Chissà per quali oscuri scopi. Aveva di nuovo ripreso a pensare di entrare nella duna, per cui gli serviva una moglie regolare accanto?

Sándor le chiese un nuovo incontro. Irina glielo negò.

Non voleva dunque. Ma sapeva anche che per lui rinunciare a quell’ultimo colloquio era impossibile. Temeva che l’anemia perniciosa, tenuta a bada appena, sotto un sottile velo silente, tornasse a devastarlo. Sapeva cosa le aveva detto: come posso tacere ciò che urla la terra? Come puoi dimenticare ogni promessa, che era certa come il calore del sole? Mi vuoi uccidere, Irina?

No, non voleva ucciderlo, Irina. Sapeva, sentiva lo stato terribile in cui lo sprofondava il suo rifiuto d’incontrarlo, di stringerlo ancora una volta. Voleva quasi dirgli in un ultimo tentativo di salvarlo: verrai a trovarci a Pietroburgo, a vedere Igor, a curarlo. Chi meglio di te può farlo? Questo posso ancora imporlo a mio marito. Il mio amore non ti mancherà mai. Ma non posso restare con te. Per ora facilita il nostro distacco. A te e a me. Sei ancora debole Sándor. Non voglio che ti succeda qualcosa.

Ma a questo punto non era meglio? Non era meglio che il morbo si risvegliasse per la seconda volta e definitiva? Come vivere senza di lei? Fu qui che un pensiero fosco lo colpì. Come faceva lei a vivere senza di lui? Non era a questo forse che lei s’apparecchiava? Non era questo quel che aveva deciso? Dunque l’amore d’Irina non era pari al suo! O un’eccessiva e malintesa apprensione aveva attratto ogni investimento d’amore sul figlio, lasciandola svuotata. In fondo quella di Igor era solo depressione. Si poteva ben curare. In fondo si stavano basando entrambi sulle parole del marito. Poteva aver esagerato. Addirittura mentito.

Infine gli comunicò la sua decisione.

– Non c’è margine di scelta, credimi. Tu non hai avuto figli Sándor! Tu non puoi capire!

Squassati dalla devastante realtà, i sintomi dell’anemia ricomparvero. Estrema debolezza, diarrea e perdita dell’appetito, con la loro scorta di disturbi intestinali, che questa volta gli causarono anche ulcerazioni alla lingua. La sua pelle tornò ingiallita, le estremità formicolavano. Inoltre, nuovo e più grave sintomo, il manifestarsi di disturbi al sistema nervoso, come una perdita parziale del coordinamento delle dita, dei piedi e delle gambe.

Doveva decidere: lottare col morbo, dimenticando Irina, come avrebbe consigliato a un paziente che fosse stato abbandonato dalla compagna, o lasciarsi andare all’amore struggente e finalmente morirne?

La sera era declinata già da un po’ e non aveva cenato. Le prime stelle lo avevano colto nella sua stanza, dove camminava angosciato.
Considerava quel che gli accadeva e gli sembrava enorme. Tanto inaffrontabile che n’ebbe paura. Si allacciò la veste da camera. Guardò la porta e le finestre dubbioso che fossero non ben serrate. Così barricato si appoggiò al muro e si lasciò scivolare lentamente giù fino a terra. Seduto, si prese la testa fra le mani. Gli doleva. Tutto gli doleva. Tutto il dolore possibile l’aveva dentro. Inutile sprangare porte e finestre.

Eppure, se era entrato, poteva anche uscire. Lui che era stato così buon consigliere in tante occasioni, non sapeva fare nulla per sé? Avrebbe dovuto mettere in ordine le idee, i sentimenti, ma essi correvano tumultuosi come fiumi in piena. E da quella piena ne usciva solo dolore. Freddo, stagnante, limaccioso. Una palude da cui non aveva forze per tirarsi fuori.

Si alzò da terra e si sedette al tavolo. Si versò del vino che non bevette. Una cosa era chiara: lei lo aveva lasciato e non sarebbe tornata sulla sua decisione. La vita gli aveva lasciato intravedere la felicità e poi gliela aveva sottratta. Tolta di mano, quando già la stringeva. Non aveva mai pensato che potesse accadere. Scioccamente si era attaccato ad un possesso effimero. E adesso doveva prendere atto d’essere solo.

A tratti si diceva che si può sopravvivere anche soli. In altri momenti gli pareva assurdo e orribile. Doveva scegliere uno dei due sentieri. Vivere o morire dipendeva da lui. Ma era davvero così? È possibile una vita senza amore?
Non lo sapeva. Lui, che era maestro d’amore, non lo sapeva. Così pieno d’angoscia, non sapeva nemmeno più cosa fosse l’amore.

Forse bastava cancellare Irina focalizzandosi sul respiro o su un oggetto ipnotico… ma lo voleva? Sì, lo voleva! Dunque da ora avrebbe iniziato un severo lavoro sul lutto gravissimo che lo aveva colpito.

– Gravissimo? – si chiese.

– No, buon dio – rispose. – Accade tutti i giorni. Ora scorderò Irina e lentamente il mio problema fisico rientrerà nei ranghi.

Ma ancora non aveva terminato di definire tale progetto, che le carni bianche, nude, profumate, di Irina, il tondo seno, la riccia peluria del pube di nuovo lo invasero e mandarono ogni decisione in frantumi. Se aveva da vivere ancore sei mesi, doveva privarsi, sia pure per quei pochi, di quelle dolci immagini, che divenivano così concrete da parer presenti? No, voleva passare quel breve tempo tutto con lei, col suo sorriso, con le sue carezze.

– Meglio morire presto, lasciando che l’anemia lo consumasse – si disse. – Ma non deve avermi sulla coscienza, Irina. La morte è una faccenda mia, una mia scelta. Sono io che sono fatto così. Centellinerò i miei giorni come un alchimista. Morirò a modo mio, con dolce fierezza. Nessuno mi toglierà Irina: solo la mia morte potrà farlo. Solo io, dunque. Farneticava. Lucidamente. Stava dirigendo i suoi pensieri in modo tale che, per quanto drammatica fosse la sua condizione, egli se ne sentisse del tutto padrone.

– Oh! lei sventurata! – si disse. – Ed io con lei.

Ma non avrebbe saputo dire quale fosse la sventura d’Irina; se fosse non abbracciare il diritto alla propria vita o esser lei toccata così duramente dal fato da esser gettata in qualche impossibilità, in qualche gabbia, in qualche fatale via senza ritorno.

E così, non sapendo e giudicando senza risposta il suo dilemma, Sándor alla fine si era arreso. Il mistero dell’amore sarebbe rimasto una cosa a lui toccata in sorte, un segreto fra sé e sé che in nessun libro avrebbe potuto raccontare e trasmettere. Anche se qualche uomo, qualche donna, permeabili, accoglienti, aveva raccolto quelle onde che da lui promanavano nella stanza d’analisi.

Forse a lui solo era toccato di conoscere l’innocenza dell’amore. Inutilmente, lo sapeva, avrebbe potuto suggerire ancora l’immagine di un corpo entro l’altro e il conforto crescere, e il calore dei cuori, e la paura placarsi, e sentire che il mondo diventa buono come una calda tana.

Sentiva ora in modo chiaro che mai avrebbe potuto comunicare ad altri che cosa è veramente l’amore, la carne dolce e buona, il fiume caldo del cuore. L’esser quietamente l’uno dentro l’altra, quella pienezza di bontà e di pace. Di conforto. Aveva la piena e serena percezione che non si trattava per lui di sapere cosa l’amore fosse, ma di “essere” l’amore. Aveva superato persino quell’alto grado di conoscenza che è il sentire l’essenza dell’amore: egli era di più, egli semplicemente… era… l’amore.

Sentiva che il modo suo era giusto, che il suo modo era il modo. Sentiva che l’analisi era schernita e irrisa perché non era l’esser così, perché in gran parte era fredda caricatura dell’essere. La massa dei colleghi era esclusa da questo possesso, non aveva questo modo in sé.

Sapeva che questo suo essere si era spesso trasmesso ai suoi pazienti, si era come irradiato. E ancor più a Irina egli l’aveva trasmesso, con la propria quiete palpitante, col reciproco conforto dei corpi. Ma non era bastato a farla restare con lui.

Esisteva ahimè, e parlava in Irina, anche una voce dura che non gli apparteneva. Era una voce arida, petrosa, che facevo aggio sulla viltà dell’uomo. La stessa viltà che prese Abelardo. Ma anche la stessa, dovette riconoscerlo, la stessa che aveva preso lui. Anche lui non aveva fisicamente lasciato Freud per intraprendere da solo il suo nuovo cammino e pubblicare i suoi libri eretici, ed avere i suoi allievi? Oh, come gli era stato più facile rimproverare la viltà d’Irina che non la propria!

Forse, si disse, anche Irina si sarebbe ammalata se colpita dalla maledizione di Pietroburgo.

Forse… forse lui non sapeva nulla. Non serviva a nulla e a nessuno. Il suo commiato dalla vita sarebbe stato senza danno, non avrebbe impoverito nessuno.

Ma vennero anche, rari, i giorni dell’ira. Essi affiancarono l’amarezza, tentarono di smuoverne, con infuocato erompere, la stagnante palude della depressione. Una volta a scatenarla fu un evento che gli diede la misura certa del suo fato.

Il marito l’aveva invitata, prima di tornare a Pietroburgo, a una vacanza insieme sulla Manica, per ricostituirsi con l’aria balsamica delle sette falesie, prima del loro rientro in Russia. Ed ella era andata.

Quali parole semplici e mortali: “ella era andata”!

La visita a Brighton, l’aperta disobbedienza al loro patto d’amore, l’indifferenza alle devastazioni che tale tradimento avrebbe prodotto nella crasi ematica di lui lo lasciarono dapprima incredulo, ma poi, lentamente, cosciente della fine. Avrebbe, sì, potuto fare una fine diversa da Werther; fare come Goethe, diventare freddi e pragmatici, come lo rappresenta Mann in “Carlotta a Weimar”.

Ma lui era Werther, non Goethe.

Irina lo aveva illuso e poi tradito con una volontà che lui non conosceva. Quel malanimo degli impotenti, che ogni tanto trova il varco, lupo sotto spoglie d’agnello.
Irina indossò allora ai suoi occhi le vesti junghiane dell’Anima malvagia. Ormai lui la vedeva sempre – impressa a fuoco nella sua mente – con indosso gli abiti di Brighton. Solo scorticandola si poteva toglierle ormai quella pelle che la rivestiva tutta di una luce cattiva.

Lei era stata là. E da quella estraneità rivale era stata rivestita, come da una scorza immutabile. Una pelle che emanava non so quali impotenze e ribellioni.

E gli venivano alla mente tante frasi sfuggite, che gli mostravano tutta l’impotenza di Irina. Ricordava quando lui tempo addietro, nei giorni felici, le aveva detto di temere che lei potesse tornare col marito. E la risposta terribile: “tranquillo, tranquillo, lui non mi vuole”. Essa dunque aspettava la liberazione da fuori. Più semplice per il suo carattere impotente a prendere iniziative. Sperava quindi che fosse il marito a lasciarla. Se lui l’avesse voluta, invece, sarebbe andata con lui. Non avrebbe potuto che subire la scelta altrui.



D’ora in poi Sándor avrebbe sperimento una solitudine vera. Lui e il muro soltanto. Solitudine priva della possibilità di cessare. Sapeva che la solitudine vera può esser sopportata solo se la sappiamo temporanea. L’altra, quella senza speranza, conduce lentamente alla follia. Essa rende le persone paralizzate e indifese. Ma soprattutto incomprese. Esse non possono far comprendere agli altri la violenza della loro disperazione. Spesso si sentono rispondere “anch’io sono solo” da chi solo non è, nel senso vero e totale e per sempre. La solitudine vera è incomunicabile. Resiste alla descrizione. Il carattere annichilente di quell’esperienza ti priva di parole comprensibili. Per l’altro che ascolta, le tue parole son parole vuote, l’empatia o la simpatia sono impossibili. L’altro non può sentire il tuo patire. Il fatto di non esser stati soli in passato è del tutto dimenticato e la speranza di aver nuovi rapporti in futuro è impossibile o vietata e resta fuori del regno dell’aspettativa e dell’immaginazione. La vera solitudine è un orrore nudo. Il rimedio, inesistente.

E rifletté sulla sua vita. Com’era arrivato a questo nulla?

Aveva vissuto in passato momenti di pienezza. La prima volta era stata quando aveva avuto l’illusione che Freud lo amasse. La seconda ondata era sopraggiunta con l’amore di Irina. Senza amore, Paolo ha ragione, siamo bronzi risonanti.

Ma quando era avvenuto il primo colpo di scena, il conflitto con Freud, conobbe l’inversione di curvatura della sua vita e della sua fortuna. La discordia, da tempo strisciante, aveva avuto un acme improvviso. Era stato il “no” del Maestro alla pubblicazione della relazione congressuale che Sándor gli aveva inviato. La devastante battaglia fra il suo desiderio di approvazione e il no del Maestro era sfociato rapidamente nella malattia ematica. E al Congresso il colpo di scena: l’uscita di Freud e lo svenimento.

Per fortuna con lui c’era Irina, che aveva forti spalle per colmare da sola la distanza da Freud. La curva della sua vita si era invertita di nuovo, sino alla guarigione.

Purtroppo il destino non gli aveva riservato una lunga pace. Un secondo colpo di scena aveva fatto sì che Irina venisse richiamata in patria con argomenti giuridici e ricatti. Erano seguiti per loro una tensione crescente e dialoghi drammatici. Infine il climax: lei lo aveva lasciato. Era stato il crollo definitivo. Era stata la caduta di ogni possibilità umana: gli altri non sono per noi. Quanto è precaria la vita di chi a loro si affida!

E col crollo la lenta distensione verso la morte, sussulto agonico della vera libertà. Nessuno gli darà più dolore. I bisogni del corpo si faran nuvola lieve.

§

Capitolo VI. Il funereo canto

Voi, umane genti, che conoscete le pene d’amore,
e voi, a cui i dolci ricordi ancora allietano

gli anni più tardi,
ascoltate.


Voi che potete intendere,

chi la gioia o il dolore soltanto,
chi entrambi,

ascoltate il tormento,
il grido senza suono di un’anima sola.

Voi, invece, a cui la saggezza
o la ragione risparmiano ogni nostalgia,
e voi, infine, a cui tutto è stato facile e piano,
senza vette di passioni né abissi,
volgete altrove il volto inespressivo.


Ma tutti, tutti, lasciate ch’io gridi la mia pena che, come una lacrima, prima di fuoco e poi di gelo, cadde alla fine sul mio cuore provato da sì amara ferita. Anche la perdita del Maestro, che mi pareva il supremo dolore, vanisce al confronto di ciò che oggi ho perduto.

Irina se ne è andata.
Dalla mia vita e dalla sua.

Solo un anno è trascorso da che la mia esistenza, che pure ormai era al tramonto, ha conosciuto per la prima volta l’amore ricambiato. Pace e tormento insieme furono i giorni. La natura m’era stata prodiga di doni generosi: capacità d’accogliere, di amare, di servire. E a detta d’altri anche di comprendere. Ma un destino avverso m’aveva privato dei robusti artigli dei titani. E non solo. M’aveva tolto anche il conforto che spetta di diritto ai deboli ed agli infermi: la protezione e l’amore, la lotta e la ferita.

Da prima, per volere del Cielo, Irina comparve come balsamo, come rugiada notturna che disseta l’arsura del crepuscolo; e sanò la mia prima ferita. Solo per divenire più tardi lo strumento, incolpevole ma ben peggiore e definitivo, del secondo dardo fatale. Oggi so che un amore efficace, fattivo, corrisposto a lungo, non è di questo mondo. E che mai lo si comprende tanto bene come quando un amore corrisposto depone il suo seme di fuoco e sale sulla ferita aperta.

Una natura incantevole mi aveva riempito di malia al mio arrivo in questo luogo fatato. Credetti Rosen una dimora degli dei, fino a quando non rivelò il suo inganno. Fino ad allora la sorte mi aveva reso cieco del tutto. Ma lo aveva fatto, ahimè, per precipitarmi ancor meglio nelle tenebre.
Tra i rivoli del sudore e della febbre riesco a volte a vedere, annebbiato, il giorno del mio arrivo qui nella foresta. Se chiudo gli occhi posso ancora vedere a tratti le ginestre ondeggiare nel vento. Poi altre visioni sopraggiungono.

Perché Irina era partita? Perché non aveva cercato altre vie? Erano pur possibili! Possibili e più aderenti alla giustezza del vivere.
Ella era il mio veleno, il mio vino, la mia aria. E fino all’ultimo la pensai ancora legata a me da una promessa e un giuramento.
Ma così non è stato. Dopo la sua partenza niente più mi soccorreva. Le notti e i giorni passavano senza sollievo possibile.

Una notte il mio sonno fu turbato da un sogno crudele. Crudele come il mese che risveglia i lillà dalla terra fredda: il messaggero divino mi fece credere che lei fosse tornata da me, di poterla rivedere ancora una volta. Ella stava arrivando. Guardavo nella stanza le cose amate da lei ed esse mi parlavano.

– Fra poco la incontreremo – dicevano. Tutto, le cose, io, la mia memoria, tutto ricordava la sua partenza. Cosa avevo fatto io dopo che lei era partita? Tutto ciò che l’incredulità e lo svuotamento consentono. Dunque nulla; aveva fissato il muro spoglio per ore davanti a me.
Ora tornava. Forse stava salendo già le scale. Me lo ripetevo di continuo mentre i minuti passavano: la sua partenza era stata solo un brutto incubo. Certo tornava con la migliore disposizione. E i minuti passavano. Certo sarebbe rimasta. Era in ritardo di solo mezz’ora. Il sole declinava. Ma se lei non venisse? Ormai già un’ora era trascorsa.

Eppure arrivò.
Irina finalmente!
Ma l’accigliava l’apprensione dello sguardo. Acuto, fisso su me.
Mio dio, quanto sei mutato da allora!
Questo e null’altro, pareva dire.

La luce radente del crepuscolo rendeva più fonde le mie rughe, meno nascosto il mio dolore. Ma ciò, ahimè, lungi dal commuoverla, rendeva ancor più fermo il suo proposito antico. O almeno tale, e indubitabile, esso appariva ai suoi occhi.

E per un po’ tacemmo, alla luce soffusa della disordinata stanza. Non rifacevo più il letto da giorni. Né era possibile far ordine nei miei pensieri di quel momento. Avevo sperato che questo incontro potesse essere un’ultima occasione. Capii che non lo era, che un’occasione non vi sarebbe stata mai più, che invano avrei atteso prorompere in lei di un grido di fede e di rischio: “Con questo gesto io mi stacco da mio marito, annullo quel che vi è stato con lui e mi unisco a te come tua sposa”.

Quale illusione, quale delirio è mai questo sogno? Eppure mi riporta alla verità. Il marito è tornato a possederla, così com’io la possedevo. E vedo, ahimè, con dolorosa nitidezza l’atto con cui il marito entra in lei. E lei, la vedo, che tutto sopporta con muta tristezza e con lo sguardo muto mi ripete: non posso fare altrimenti, rassegnati, non sono più tua. E come vedi anch’io come te sono sola, anzi peggio.

Ah, Irina, mi dici d’esser sola anche tu!

Quale ingenuo, involontario e pur crudele scherno è mai questo? Oh, se sapessi! Ma non sai. Non sai che voglia dire esser soli davvero, giorni interi in cui non vedi un solo viso, non senti una sola voce, interi giorni in cui la tristezza non si stacca mai dalle pareti per volarsene via per qualche ora. Qualche ora almeno. Qualche ora. Oh, quanto diversa è la tua sorte! Eppure tu non lo sai; tu che hai un marito arido e stupido accanto, mi dici d’esser sola. Ebbene tu nemmeno puoi immaginare cosa davvero sia il vuoto perenne, l’immobilità del tempo, i battiti sempre uguali del pendolo, le immutabili ore, le cose che sempre mi guardano mute e indifferenti, irridenti forse, vestigia che mai parleranno, muffe che annunziano, silenziose, la decomposizione imminente.

Ieri ho riletto il tuo Werther. Il mio grido gli assomiglia.
Battono le 12. Irina, Irina, addio! addio! Debbo congedarmi da te. Vado in un mondo migliore, dove i figli del vero amore non devono cedere il passo ai figli dell’odio e del rancore, ai figli di un uomo detestato.
Oggi non hai avuto cuore, Irina, ma un giorno forse, se Dio è giusto, se di nuovo sarai toccata dal giusto amore che non obbedisce alle grigie leggi degli uomini, allora busserai alla porta che fu mia e ti diranno che non sono più nel conto dei giorni.
Ah, dunque vieni, morte deliziosa. Mai avrei creduto d’invocarti senza che dolore o vergogna mi ci sospingano, mai avrei creduto di apprestarmi a quel momento senza sentir paura, mai di non provare nulla nell’imminenza fatale dell’evento
”.



Poscritto

Alla morte di Irina, avvenuta dodici anni dopo quella di Sándor, fu trovata fra le sue carte una lettera mai spedita. La data che portava precedeva di pochi giorni la morte di lui. Da lei ricopiata con trasporto, e adattata appena, aveva questa intestazione: Da Eloisa ad Abelardo.

E diceva:

“… Non dirmi più che sei come morto, che ti restano forse pochi mesi o settimane. Il solo pensiero della tua morte è già una specie di morte per me. E la tua morte, la tua morte vera, allora, se mi troverà ancora in vita, che sarà? No, Dio non può permettere che io ti sopravviva per renderti l’estremo dovere, quella presenza all’esequie che invece mi aspetto da te. Sono io colpevole contro la vita e prego il cielo che in questo io ti possa precedere, non seguire. Non morire, risparmiami. Risparmia, almeno in questo, colei che per un poco visse solo per te; dimentica, almeno in questo, la mia viltà; non dire più cose del genere, che trafiggono il cuore come spade di morte e rendono ancor più penoso della morte questo poco tempo che ci rimane da vivere”.

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