Poesie

Le diverse stagioni della vita ebbero, inevitabile, un diverso immaginare.

A mio padre

Verso sera,
i montanari videro,
lontane,
comparire le ruspe.
Un punto all’orizzonte,
ancora senza rumore.

I ginepri odoravano
e stormivano lievi
le querce fanciulle.

Ma quando inghiottì il sole
il primo squarcio aperto
nella giogaia scura di tramonto,
mio padre ammutolì.

Solo allora le pernici volarono via,
i cani si accucciarono ai suoi piedi
e niente fu più come prima.

Mi strinsi bambino alle sue gambe
e lui guardò l’orizzonte anche per me
che non sapevo.

Qualcuno tornò dai campi
col suo carico d’erba
graffiando la sera col tridente.
Scoteva la testa:
traverseranno il mio prato
disse
e non guardò nessuno passando.

Il suo sudore acre, rappreso al legno della cesta,
fu l’ultimo odore buono che sentii
prima che i camion scaricassero,
percotendo pesanti la mulattiera,
le loro rancide ferramenta ostili.

Le vecchie del villaggio
non uscirono di casa.

Sapevano che la loro pena non sarebbe mutata,
che la strada non le avrebbe portate in alcun luogo,
che l’oleandro sotto casa sarebbe morto di sete.

Morirono le vecchie
e morì l’oleandro.

Ieri
è morto anche mio padre.

La strada,
che la sua mano incerta
aveva tracciato sul catasto dei nostri campi più belli,
ha portato la sua bara
in un lontano loculo grigio
uguale a mille altri.

Da domani,
negli anni a venire,
un sole inutile
dallo scuro squarcio dei monti
s’affaccerà ogni giorno sui vetri polverosi della sua casa,
traversando le persiane brecciate
ed abbattendosi sulle umide muffe indifferenti
delle mappe catastali. 

Voci del crepuscolo

declina dolce il sole
e il giorno con lui

penombra appena

ma già – da non so dove 
dirama luce
un muoversi di voci

Sovrumano silenzio

una gran gola aperta
è il cielo stanotte
e senza un grido

nella sua coppa di silenzio
l’ellissi dei pensieri

appeso agli astri fermi
quel nulla che noi siamo

Un emigrante ritorna

ma più non accorre
alcun nome di ragazza
alla sbiadita memoria
né sentiero
o sassi
od i cespugli suoi
coi loro nomi amati.

Qualche vecchio
che mai da lì s’era distolto
tiene da un capo
il filo dei ricordi.
Ma non vi è mano
che afferri l’altro capo
né canto che lo dica.

Nulla più vi succede,
solo il vento.

Il vento che invano si ferisce
nel sibilar tra le finestre rotte.

La mia sera

Si risveglia a la novena
il vecchio campanile
e viola planano i rintocchi
su prati d’aria leggeri.

È l’ora.

Di pipistrelli e rondini
si stende nell’aria una tovaglia.
Sulla povera cena
spande la sera benedetta
una preghiera azzurra:
il pane ascetico
(nient’altro, e un po’ di latte)
profuma di bontà le nostre mani.

Celebra i suoi vespri
sul comignolo
una tortora vestale.

Zittiscono i tocchi radi.
La prima stella illumina
il cammino; e marciano mute
le ronde del silenzio.

Stringe la nonna Dio
nelle sue mani,
annodato al collo che reclina
un casto fazzoletto di pietà.

Col suo tocco di campana,
anche se stanco è il rito, a lei
torna ogni sera
come uno sposo il suono.

Ma già dorme il suo volto di miele.
Sorride il quadrante della notte
e disegna le ore del suo sonno.

Francescana pace

Ancora m’accogliete,
ginepri
odorosi
di francescana pace.

Ancora, industri,
v’alzate,
guardiani del monte,
ad azzurrare il giorno.

Muta, la vedo, è la preghiera
vostra
che invita l’anima stanca
a rimanere.

Lo sapete, non posso.
Altra fatica
m’attende,
altro monte ho da scalare
su cui m’accascio
a ogni tornar di verso

per il sudore che ho
nel compitare.

Ora il verso ha da mettersi
al servizio;
il mondo malato
ha bisogno anche di noi.
Di altro amore
parla oggi il poeta.

Chinò il capo il ginepro.
Ed io con lui,
volgendomi a tornare.

Ricominciamo da oggi…

… disegnando con esili profili
il nostro lieve stacco dalle cose.

Il silenzio degli antenati

Ad uno ad uno
la neve li coprì
di petali leggeri.

Avevan cuori
amari come cardi.
Il camposanto ne fece
cespugli e rosse bacche.

Reclina
più volte il capo
un passero
a guardare.

È qui che finisce il mio sentiero

È qui che finisce il mio sentiero
(e del tuo io non ti so dire)
a pochi passi dalla porta chiusa.

Tutto s’arresta innanzi a questo muro
(da un groviglio di spine il varco è invaso)
e anche il pendolo più non batte l’ora.

Niente di vivo a me risuona
ed è raro che nel pieno mezzogiorno
(se ancora esiste il cielo)
non trascorra il cirro che sovrasta il monte.

Quest’ora, e tutto, è immobile silenzio
svanita ogni memoria ed ogni volo.
Quest’ora, e tutto, è inalterato muro.
Altro non v’è.

Lo sguardo spento oltre non va
di questi sterpi, ove la via si rompe,
ove l’usata fontana si sdirupa,
ove si sgreta il forno
che ieri ancora il fico sorreggeva.

E non vedo la stanza del miele
e la sua sorte.

A Wystan Hugh Auden

Sgrani oggi la vostra mano
ogni chicco
di preghiera in lutto.
E con vista
di violaciocca e incenso
percorrete in ogni via
la folla.

Ma nessun viso è il suo.

Chiudano dunque i gigli
le loro inutili trombe.
Tacciano le ali
del colibrì e del pettirosso.
Crolli sulle cose
la volta delle opache stelle.

Perché a nulla serve 
il cielo
se lei non è con me.

La sulamita

Che brevi gonne indossi 
Primavera!

T’invoca invano Inverno,
perduta l’ultima sua spada.

Che tu sia maledetto,
Tempo,
ed il tuo inganno,
vestito di ciliegio.

Rincasiamo!

Rincasiamo!
È l’ora.

Che già
Muta
Leggera
Senza vento,
Oggi su te cade la neve.

Non tarderà a venire il nostro inverno.
E sarà lungo.

Non hai visto anche tu
Fuggire
La volpe fra i ginepri?

A Robert Frost, con devozione!

Porto le mucche a bere.
Han pascolato tutta la luce e son tornate
scotendo mesti i campanacci a sera.

Han trovato solo
povere fronde
e cardi.

Esauste le foglie d’erba.

Ora hanno sete.
Ed io.

Ché nulla, delle logore carte,
mi ha nel giorno dissetato.

E d’improvviso fu tardi

Quando
era ancor da venire
la sprezzavo
alla soglia dei libri.

Ma lei venne,
pian piano,
non vista,
come lenta impalpabile sera.

Lenta venne,
silente,
senza segni che l’ora era giunta,
senza squille d’aeree campane.

E, d’improvviso, fu tardi.

Tardi
per i libri mai letti,
per i sentieri soltanto tracciati.

Addio dunque
giardini mai corsi,
poesie,
racconti non scritti,
su cui già l’asfodelo fiorisce.

Arde il villaggio

Fuggono i caprioli inseguiti
dal muggito delle querce moribonde.

Raggrinzano i versi e gemono,
nelle nere
pagine
contorte.

Euridice

Ancora odori del mio seme,
Amata,
E già sei nell’infera dimora.

Invano crepita la foresta dell’anima
Nel tuo rogo d’assenza.
Invano il mio canto di papavero e miele
Muove a lacrima le fiere.

Al divieto del dio
Altra divieni
Fuggi
E il varco tuo si chiude.

Calanchi

Stracci di nubi
feriscono i calanchi

Ginepro intristito
da brividi di grigio.

La memoria del vero

Inevitabile perdermi
nella quieta nebbia
ove solo un’eco smemorata abita
di voci lontane
come morte.

E però vorrei che tutto 
coprisse ai miei occhi:
il mondo eguale
e la città estenuata
che scolora e ingrigia.

Solo la chiara grotta dei monti
ancora serba la memoria del vero.

Ivi s’azzurra il ginepro
e la verdelucente bacca
s’impigra e acclima.

Ivi il faggio incanutisce
e le nevi verranno
luminose.

Riapro gli occhi…

… e rinverdisco
d’alberi

Raggiungevo i compagni ad Osacca

1. Il cieco

Ero solo, era sera, era
un brutto dicembre;
una giornata di quelle che vedi
di rado, persino da noi,
qui in montagna, che di freddo
ne sappiamo anche un po’,
specie in guerra. E quel giorno
era anche Natale per giunta.
Dopo l’armistizio, era il primo.

E quelli eran proprio i miei monti,
la mia casa ad un tiro di schioppo.
Lì a Osacca ero uno dei pochi compagni
che abitavan di là dal canale.

E ogni tanto ci andavo, di là;
la voglia di vedere qualcuno, sapete,
della mia parte di valle.

Quella sera, per caso,
venivo giù dalle Case dei Brozzi
e prendevo ogni nuovo scorcione
o drittura che potevo, nei campi.
Alternavo il mio passo
fra boschi e coltivo. E qualche
pezzo talvolta di strada,
qua e là. La terra era fredda, era dura.
Timoroso nel passo, percorrevo
anche tratti ghiacciati.

E pian piano fu tardi,
e presto fu buio. Raggiungevo
i compagni ad Osacca,
ma ne avevo, di strada, da fare
ancora un bel po’.

Oscuri nell’aria gelata, muggiti sperduti
venivan da stalle lontane,
e strida d’uccelli, e le campane
dell’avemaria, là in fondo al vallone.

Anche lo sconforto arrivò
con il buio, e i rimpianti con lui,
e con loro il dolore
e i suoi tristi compagni.
Come sempre,
ogni volta,
a quest’ora.
E se poi è Natale
ancor più.
E anche più se si è in guerra.

Vent’anni.
Esser tristi a vent’anni:
ci vuol proprio tutta.
Il sentiero era niente
al confronto:
ben più freddo
era il ghiaccio dell’anima.
Al declino del giorno lo senti,
lo senti a ogni torno di strada.
Specie poi se non vedi nessuno.

Ma quella sera lo vidi.

Fu dopo l’ultima curva,
e si era quasi laggiù nel paese.
Intento a far legna nel bosco,
o anche frasche,
o quel che serviva,
rivoltava ogni cosa;
fra gli sterpi
o ne l’erba ghiacciata.

Rubava, era chiaro:
quasi niente era suo.
E si guardava attorno
a ogni suono: e li dovette
sentire i miei passi.
Perché prima ristette.
E solo dopo un po’
si chinò
nuovamente a frugare.

Abitava sopra il paese,
e da lui nessuno ci andava:
per scelta,
o destino,
o generale condanna.
Era vecchio, era oscuro.
Lo conoscevo da sempre.

Fra i compagni di Osacca
io solo ero a casa,
in quel posto.

Mi fermai, mi nascosi.

Lui riprese la cernita lenta,
curva,
e forse anche dolente.
Immobile attesi
che finisse il suo fare.

Volevo seguirlo.
Perché certa gente non cessi
mai di conoscerla bene.

Si dicevan di lui tante cose.
Anche brutte. E bisogna
poi dire che nessuna
di quelle
era falsa del tutto.
Brutte chiacchiere in giro,
che in guerra eran forse di troppo,
chiacchiere anche
contro noi partigiani.

Era tardi, era freddo,
ripeto, ma decisi
di saperne di più.
Son curioso, e anche molto,
dei bisticci dell’anima.

Così, quando lui
si avviò verso casa,
non lo persi di vista.

Poggiato alla finestra, l’avrei guardato
muoversi fra le povere cose
e veder se si era arricchito frattanto.

Perché certo rubava.

Da un po’
a noi di casa
venivano a mancare
galline, e più spesso anche soldi.

Ma arrivato alla sua
bicocca di sassi, lui,
posata qualche fascina
contro l’uscio di canne intrecciate,
non si fermò,
tirò dritto.

E seguitò col carretto,
fino alla casa del cieco.
Sapete, là in fondo al paese
che più giù c’è soltanto il canale.

Anche le finestre
eran spente dal cieco: nessuna fiamma
c’era più nel camino.
E magari da tempo.

Il mio vecchio vi entrò.
Ormai solo una luna
ch’era tonda come un piatto
d’ottone ben lustro
mi aiutava a vedere.

Stetti a lungo a guardarlo
uscire ed entrare
con nuove fascine.

Sì, stetti a lungo
a scrutar la finestra,
cieco anch’io
nel buio di tutti,

finché vidi
una debole luce, una fiamma
che anche l’anima accese.

Per dirla tutta, oramai
io potevo anche andare.

Nel cuore ci avevo
quel piccolo fuoco.
Ma forse era grande,
magari, e scaldava anche me.
E di sicuro m’avrebbe portato
fino a giù nel canale.
E traversarlo
adesso
sarebbe stato più facile.
Magari
non mi bagnavo neanche.

2. Il nemico

A gran balze scendevo il vallone
e poi di là io l’avrei risalito.
Perché Osacca è di là
proprio in fronte.

Ma prima del canale sostai.
Insospettito da qualcosa, sostai.
Perché subito sentii dei rumori.
E poi,
infine,
li vidi.

Eran gli altri.
Eran loro,
il nemico.

In quel chiaro di luna salivano
nella costa di là
proprio in fronte,
e parevano tanti,
più di cento sicuro,
silenti e guardinghi, certi già
dell’agguato fatale,
i più per lo stretto sentiero,
gli altri
sparpagliati nel bosco.

Fra poco sarebbero stati alle case.

Di corsa deviai verso sud. L’avrei
traversato più a monte
il canale,
li avrei presi di fianco
e magari facevo anche in tempo.

Da fare, di sicuro,
ce n’era anche per me.

Thauma

Dalla corrosa balza
ove s’immette oriente,
come ogni alba
ti rivedo
calanco scorticato dalle furie
– qual osso nudo
ove non cresce più
cespo né arbusto –
inerte sempre all’apparir del giorno.

Ma, così spoglio, tu
non provi meraviglia più
né di cancellar ti sforzi
– com’altri fa –
con muri di certezza
il terrore imprevisto che t’assale.

Abbandonata – com’hai – la profezia
sicura, pronta a impedire
gli inattesi eventi
cangevoli ogni giorno,
oggi t’ascolto e sento
che il tuo pensiero ha un rinnovato corso.

La voglia che niente d’amato
nel Nulla più si estingua
ti appare adesso come un’alba chiara
col volto del dolore.

Pur se saperlo non toglie il tuo soffrire,
puoi cantare il patire
e il mutamento. E “pur ti gioverà
il noverar l’etate del tuo dolore”.

Ma non saran le parole del tuo canto
a darti breve pace.

Lo sarà la forza loro smisurata,
il timbro superbo della voce.
Già in questo suono è forza.
Già per un po’
in questo dire
il tuo soffrir si placa.

Fuggi, luna, luna, luna…

Vieni ragazza,
apriamo il tulipano dolce della notte.
Ora rosa, ora rosso, ora nero.

Camminiamo il più dolce dei sentieri.
Vi è un fiore ancor chiuso
E profumano i soli notturni.

Vieni,
Gli uccelli corteggiano la luna.

Vieni. Il tulipano sorride
E s’apre il suo fiore e si spande.

Qualcosa si agita piano
Sembra forse un alito caldo.
S’accende si spegne s’accende

Or’aperto ora chiuso or’aperto.
Ora luna ora fuoco ora luna
Ora rosa ora rosso ora nero.

Dopo l’ultimo uomo


La terra, ritornata vergine,
attendeva l’oltreuomo.

Più non vi erano
campi né sentieri.

S’erano sciolti diluvi
intanto
e nessuno aveva fermato
la foresta che nasceva.

Un giorno il Tempo seppellì
con le sue mani nude
anche l’ultimo uomo.

E cominciò ad attendere.

Se non ci sarà più voce


Quando l’indifferenza

asciugherà ogni voce

tacerà il poeta,

rotta ogni sua corda.


Né avrà lillà

la terra senza canto.

Solo foglie non scritte.

Alla brezza leggere.

Furore

Era mezzogiorno quando

la misura fu colma

e scoppiarono le conchiglie.

Uccelli da preda tesero

gli archi del furore

e trafissero

ogni cosa al loro passo.

Crepitarono chiese

d’incendiata freccia

con le poesie loro e le lor glosse.

Solo gli uccelli centenari

videro brillare

l’oro nelle ceneri.

Troppo breve momento

per chi guardava altrove.

Nel lampo dell’ultima fiammella

comparve e sparve

(un bagliore)

il volto del poeta.

Chi detterà il mio verso?

Seguo il cuore, 

il suo passo. 

Cammino.

Guardo dietro, mi fermo:

Senza inizio, né fine,

una folla sbandata

si muove in un tondo

e non sa.

Riprendo il mio andare.

Sarà il cuore a dettare:

il vecchio passo 

ed il nuovo.

Quinta C

Nella città scorderò

la sagra triste

curva nel volo dei primi migratori

e quella luce assorta

ieri

di partenza muta.

È ora di quaderni nuovi

la penna buona

per cominciarli bene.

Profumo di carta pulita

luci la sera

cinema

tram.

Non più il petroso villaggio di cui

con gli amici per vergogna tacerò.

Tacerò che lassù stan seminando,

persa la scia dell’ultimo migrante.

Attimo, fermati!

Tremola fresca ed ondeggia

nella casa

la gloria dell’ora.

Vinto è dal sonno, Omero,

e abbandonato tra le mani.

Ma ecco che muove lento al soffio caldo

un vetro

aprendo ai secoli il passare.

Trascorre le luce sulle cose

indugia, muove, torna a riguardare;

carezza le pagine del Libro.

Attimo fermati! – lo prego.

Attendiamo insieme.

Non stupisce anche te

l’eternità?

In ricordo di Mario

Ti ricordo, Poeta, in trattoria da Franco.

sempre da noi a pochi passi.

Urbino ventosa d’aquiloni ci aveva accolto

entrambi, pellegrini.

Ricordo.

In Te il rimpianto c’era

della parola perduta.

Più non mostrano a noi,

– così dicevi –

le cose i loro nomi.

C’era forza nella parola da principio, Tu pensavi.

Poi la perdemmo

ed ogni oggetto

divenne più forte del suo nome.

Si fecero mute, le cose, e silenziose;

impossibile divenne il loro annuncio.

Io, al contrario, sognavo

senza parole le cose.

S’annunceranno da sole, io speravo.

Non apritemi le cose chiuse, vi dicevo;

a Te e ad altri.

Non mostratemi il seme che sta dentro.

Non voglio vederle

le cose nascoste in scorze di parole.

Quando il loro tempo sarà

voglio che s’apran

da soli

come melograne i versi;

Aprirà ognuno un attimo il suo guscio

e mostrerà a noi grani di luce.

Splenderanno, bagliore d’un attimo,

e saran subito opachi agli occhi nostri.

Si è poeti un attimo soltanto

quando la parola

muta

si risveglia

e subito

scolora.

Da lontano intanto

un suono dolce

già racconta la morte del Poeta.

La chiamata


La sorte che mi ha fatto

Incontrare la tua via

Oh no, lei non sapeva!

Ma tu sì, poesia. E posato

Il capo lieve alla mia spalla,

“Non mi cercare

– con grazia, mi pregasti –

Se per ventura una volta,

Anche una sola,

Io verrò da te,

Questo ti basti”.

Una domenica d’agosto.


Camminavi serena.


Trionfante di luce, incurante, 

Al mio fianco t’accostavi.

Talora anche mi sfioravi

Se le siepi invadevano il sentiero.

Ma sorridevi ogni volta,

Di me non timorosa.

E certo sentivi

irrompere il mio fiume.

Del suo gioco mai stanco

Scherzava il sole

Coi rami del vespro e i tuoi capelli.

Ai lati, gli orti, le siepi.

Come eternare

Quei confusi momenti,

Io che sapevo?

Il tuo seno era ben teso

Nella camicia a quadri.

E un poco si vedeva.

Ma una purezza tersa

Ti splendeva in fronte

e tutto sospendeva.


Dono ancor più crudele

Averti così vicina

In quel momento.

(me lo annunciasti allora:

non t’avrei vista più).

Domani il convento t’attendeva

Per dare o toglierti la vita.

Mio dio che gran mistero

Quest’andare al martirio luminosa!

O alla gloria?

A tutto rinunciavi? o lo facevi tuo?

Passammo davanti alla cappella

Che l’astro ancora sfolgorava.

Tu

Eri a casa ormai

E della clausura varcasti

(ma ti volgesti e fu l’ultimo sorriso)

La soglia senza esitazione.

Ed io?

Ancora lungo era il mio viaggio.

Senza te m’inoltrai nel mare aperto

Né una stella avevo ad indicar la strada. 

Epifania

Tra

un lampo

e

il verso,

la mia notte insonne.

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