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1. La metapsicologia junghiana
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Carl G. Jung. La vita. (Cespes 1° anno)
L’influenza di Hegel, Wagner e Nietzsche sul giovane Jung (Cespes 2° anno)
Dall’archetipo al simbolo (Cespes 3° anno)
Attività simbolica e trasformazione (Cespes 4° anno)
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2. Da Jung alla psicodialettica
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L’insufficienza del metodo analitico
La dialettica dell’individuazione
La dialettica del ritorno all’Uno
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3. I quindici passi
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Il secondo viaggio psicodialettico: la lotta con i genitori interni
Verso la meta: aspetti del terzo viaggio
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Jung. La favolosa vita
Slides di Luciano Rossi
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1875
Jung nasce nel 1875 in Svizzera a Kessvill, sul lago di Costanza. Freud ha 19 anni e sta iniziando la Facoltà di Medicina; Adler ha invece 5 anni. Freud e Adler si formano a Vienna, mentre Jung si formerà nella campagna svizzera, nei dintorni di Basilea
A fine secolo il clima viennese è positivista. Nelle campagne svizzere permangono invece solide tracce di spiritismo, occultismo e paganesimo.
La famiglia materna di Jung ne è fortemente intrisa, mentre quella paterna è invece volta alla cultura accademica e scientifica. Sia il nonno che il bisnonno paterni erano medici.
Farò lo psichiatra!
Jung prende da entrambe le famiglie, ossia si sente portato tanto al successo accademico quanto alla vita interiore e occulta. Decidendo di fare lo psichiatra cerca di soddisfare entrambi gli interessi con un sol gesto. È quindi, sin da subito, un uomo di sintesi, ossia dialettico anziché dualista come Freud.
lRiesce in tal modo a diventare un accademico di valore occupandosi di spiritualità; ne sortisce una potente e drammatica figura di aristocratico contadino. Jung porta sempre con sé nel mondo accademico la sua seconda personalità (l’Ombra contadina e spirituale) e ne va fiero. È una curiosa contraddizione fra il rigore del metodo e gli argomenti indagati, fra la formazione contadina e le prestigiose ascendenze.
Un ragazzo di campagna
Jung è profondamente diverso da Freud e Adler; questa differenza ha certamente le sue ragioni, alcune delle quali possono essere spiegate da motivi ambientali.
Il giovane Jung resta fino all’Università un ragazzo di campagna (Klein-Hüningen è un paesino nei pressi di Basilea) anche se, dalle medie in poi, va a scuola ogni giorno a Basilea. Un particolare ragazzo di campagna però: non dimentichiamo che il nonno paterno, omonimo, era stato Magnifico Rettore dell’Università di Basilea (si sospettava addirittura che fosse figlio naturale di Goethe) e che il nonno materno era stato, per la sua Chiesa, “antistes” (vescovo) di Basilea.
Lo spirito völkisch
Il giovane Jung ama la solitudine della natura e la vita del “pagos” (villaggio), dove abita; la stalla umana e animale è fortemente presente nella campagna svizzera ed esercita una forte attrazione su di lui: non dimentichiamo che una delle feste tradizionali di Basilea è dedicata al Wild Mann (l’Uomo Selvatico).
Nelle montagne svizzere Sant’Antonio, patrono dei maiali, è considerato in un rapporto d’amicizia particolare con questo animale-Ombra. Come a dire che nelle montagne svizzere è di casa la conciliazione degli opposti (in questo caso santità e lordura).
La campagna svizzera genera uomini montanari, isolati, intrisi, in quegli anni, di uno spirito völkisch che risente del mito germanico del dio Wotan. Il nonno paterno è inoltre tedesco. In Germania è la facoltà teologica di Tubinga la patria del movimento neopagano.
Il Burghölzli
La Vienna di Freud e Adler è capitale d’impero: immensa, intellettuale e cosmopolita. Klein-Hüningen, dove Jung vive fino alla laurea, e dove fa le elementari, è un piccolo paesino di campagna.
Un’ulteriore differenza è questa: Freud e Adler sono ebrei; Jung è invece cristiano con forti influenze neopagane.
Freud e Adler, istologo il primo, medico di base delle classi povere il secondo, svolgono un lavoro analitico come liberi professionisti, isolati e senza potere accademico quando conoscono Jung (1907); quest’ultimo invece è, all’epoca, primario psichiatra di una delle tre più prestigiose cliniche psichiatriche del mondo: il Burghölzli.
1900 – 1909, l’ospedale psichiatrico
Incontro con Freud. Per fortuna degli ebrei viennesi Jung è uno psichiatra che si occupa anche di cose strane (non psichiatriche). Fra questi strani interessi ci sono anche le innovative dottrine di Freud. Jung è quindi desideroso di conoscere ed aiutare Freud.
Quando i due s’incontrano (1907) è Freud ad aver bisogno della benedizione e protezione di Jung per essere credibile, non viceversa. Jung rappresenta, infatti, quel mondo accademico che può accogliere Freud o rifiutarlo. Freud ha in quel periodo un grande bisogno di legittimazione. Ha un po’ contro tutto il mondo.
Mitologia e paganesimo: le influenze culturali
Winckelmann scoprì le meraviglie estetiche dell’arte e della letteratura dell’antichità pagana, in particolare della Grecia e ne apprezzò l’aspetto apollineo. Con la pubblicazione delle sue ricerche iniziò la Germania all’amore per la mitologia.
In seguito Goethe introdusse nell’ellenismo tedesco le scintille di sensualità e passione romantica dello Sturm und Drang, le prime avvisaglie del successivo torrente dionisiaco.
Con Nietzsche gli ideali elitari di una nuova nobiltà puntano ancor più ad abbandonare il culto apollineo (per privilegiare il culto dionisiaco) e a produrre una “trasformazione” sociale e culturale. Vediamo in questo i semi dell’Ombra e della trasformazione individuativa che saranno propri di Jung.
Un empirista rigoroso
Jung ha indubbi contatti con le radici völkisch dello spirito germanico (panteismo, paganesimo, politeismo); il nonno omonimo del resto era tedesco. Goethe era l’incarnazione ufficiale del genio germanico e Jung, al di là di un legame di sangue con lui, su cui sappiamo che fantasticava, lesse ripetutamente il Faust, testo sacro della cultura germanica.
Tuttavia Jung restò sempre estremamente severo e rigoroso nei confronti di ogni lettura o influenza di moda; se ne occupò sempre come osservatore attento, ma solo per capire se la dovesse rigettare o meno e cosa rigettarne
La psichiatria del 1900
Nel 1900 la psichiatria non sa spiegare l’eziologia della malattia mentale. Si limita a descrivere.
Freud, Adler e Jung sono costretti a rivolgersi ai poeti, scrittori, filosofi, antropologi se vogliono avere elementi d’ispirazione e comprensione.
Hegel, Hoelderlin, Goethe, Nietzsche, Wagner, Bachofen, Dostoevskij diventano le loro fonti d’ispirazione e i tre medici, da pragmatici quali sono, trasformano le idee degli ispiratori in tecniche e pratiche viventi, in terapia.
Una terapia però che la medicina ufficiale rifiuta come non medica, ma che, quando ne constata i lauti guadagni (i primi clienti erano ricchissimi), pretende di esercitare solo lei.
Jung e Goethe
Jung ha 15 anni quando sua madre gli dice: “È ora che tu legga il Faust”
E nel Faust il ragazzo leggerà: “A me nel petto … vivono due anime” (I, 1112). Scopre così che anche Goethe ha una personalità numero 2. L’adolescente Jung si sente da questo sollevato. “Non ero più solo … mio autorevole padrino e mallevadore era il grande Goethe in persona”.
Ma, anche con Goethe, Jung è critico. La soluzione goethiana di sbarazzarsi di Mefistofele non è da lui condivisa. Del male non ci si deve liberare con un’illusione o una minimizzazione. O vincendolo. Il male va integrato.
Strana davvero però dobbiamo giudicare del resto questa sconfitta del male da parte del “libero muratore” Goethe, se pensiamo che la libera muratoria ha il pavimento del tempio E bianco E nero.
Jung e Nietzsche
Zarathustra è per Nietzsche ciò che era stato Faust per Goethe, ossia la sua personalità numero 2, così come l’Ombra lo è per Jung. Jung sente in se stesso la seconda Personalità come l’avevano sentito Goethe e Nietzsche, ma è molto più avvertito e critico di loro e fa subire a Questa e al Male un diverso destino.
Jung sa che, se la coscienza è senza dio, si forma nell’inconscio una figura divina compensatoria. Nietzsche soccombe perché dichiara la morte del suo dio e permette che il suo Io diventi dio. Nietzsche stesso diventa dio (inflazione).
“Nietzsche era un eccentrico, cosa che io non volevo essere” (1961, 139). Colui per il quale dio (il riconoscimento dell’autonomia dell’inconscio) muore, è destinato alla inflazione dell’io. Jung non dice mai che Dio è morto e nemmeno che Dio è esterno all’uomo o trascendente.
L’inconscio come dio
A noi è solamente demandata la scelta di quale “Signore” (archetipo o dio autonomo) servire, onde il servizio suo (scegliere il proprio mito) ci protegga dalla signoria d’altri (ego inflazionato) che non abbiamo scelto. Vocatus atque non vocatus deus aderit. All’inconscio non la si fa.
Jung accetta l’impossibilità di dirsi senza dio ed avoca a sé il dilemma della scelta fra i tanti dei che si contendono la supremazia nell’inconscio dell’uomo. La sua prima scelta è quella di rifiutare che l’Io diventi Dio. Così sostituisce al superuomo l’uomo individuato a cui il dio (l’inconscio) è integrato.
Il carisma di Jung e il culto junghiano
Mantenere alta la leggenda di Freud è importante nel mondo professionale psicanalitico, in quanto garantisce il mantenimento, presso l’opinione pubblica, di un alto interesse clinico nei confronti dei freudiani, con la perpetuazione del loro utilizzo come psicoterapeuti e del conseguente riscontro economico.
Se però le teorie freudiane sono le più diffuse nelle facoltà di psicologia e di medicina, le idee di Jung sono molto più diffuse nei corsi di laurea in antropologia e di storia delle religioni, ma soprattutto nella cultura umanistica e popolare.
Dei due, è Jung ad aver vinto la sfida culturale fuori della professione clinica. Non esiste infatti un movimento freudiano di non professionisti, come accade per Jung.
I circoli culturali
Migliaia di club (in quasi tutte le città ce ne è uno) di individui attratti dalla spiritualità del maestro, sono una testimonianza della centralità storica attuale delle idee junghiane. Dobbiamo tuttavia ricordare che Jung non si sarebbe mai iscritto ad uno di questi clubs, né avrebbe mai aderito alla New Age.
Dunque questa diffusione più che una risorsa è un problema. Come è accaduto che uno scienziato rigoroso sia seguito oggi da una moltitudine di persone in crisi religiosa ed esistenziale, le quali non hanno alcun interesse per la sua psicologia?
Il fatto è che, mentre è notissimo uno Jung mistico e profeta, che in verità mai ha voluto essere tale, lo scienziato Jung è rimasto, nonostante tutto, uno sconosciuto. Nostro compito è porre rimedio a questa lacuna.
1909 – L’abitazione a Kusnacht
… in riva al lago, sulle sponde dell’inconscio
1913 – La via solitaria
Nel 1907 Adler manifesta idee non ortodosse e nel 1911 si separa da Freud. Nel 1912 anche Jung manifesta idee personali e nel 1913 avviene il secondo scisma
Il fatto è che né Jung né Adler furono mai veri allievi di Freud. Erano solo suoi ammiratori, ma avevano sin dall’inizio idee proprie. Inoltre non avevano la personalità del seguace.
Del resto molto poco hanno inventato questi tre medici, essendosi dedicati più che altro a trasformare in terapia quelle che, fra le dottrine filosofiche e scientifiche del tempo, erano più congeniali al loro tipo psicologico.
Il lavoro con le pietre
Dal ‘13 al ’18 Jung s’impegna in una solitaria e furiosa ricerca della sua individualità, sulla riva del lago “giocando” con le pietre. Dedicandosi ad attività materiali poteva essere più vicino ad un mondo arcaico. Il metodo di Jung è antropologico, mitologico, religioso.
Jung non consente vie di mezzo: o piace molto o non piace per niente. Dipende dal rapporto che noi abbiamo con il nostro Jung inconscio. Possiamo temerlo come un pericolo o una figura d’Ombra, oppure possiamo vederlo come un Saggio che illumina il nostro cammino.
Rinascita, rigenerazione, individuazione
Sulla scorta dell’ambiente campagnolo e occultista, della formazione filosofica germanica, del tipo di clientela neopagana e indoeuropea, si forma in Jung l’attitudine a ricercare (e l’opportunità di vedere) aspetti differenti della psiche e ad offrire soluzioni salvifiche diverse da quelle prospettate da Freud e da Adler.
Per la visione goethiana, wagneriana, nietzschiana è possibile rigenerarsi con un duro lavoro iniziatico. Attraverso l’esperienza diretta del confronto con gli archetipi e con gli dei interiori si compie quel cammino dell’eroe che Jung chiamò individuazione.
Il privilegio dell’analisi
Potrebbe nascere da queste premesse culturali l’idea che l’analisi personale sia un privilegio e che l’analizzato appartenga ad una elite, che sente di aver trovato una risposta e si sente superiore a chi si ostina a non intraprendere il cammino della esplorazione dell’inconscio.
In un certo senso è vero. Jung segnala però con forza i rischi d’inflazione insiti in questa filosofia e nel contatto incauto con l’inconscio collettivo. Privilegio sì, ma occorre una guida.
1923, la Torre di Böllingen. La casa come psiche
Nel 1913 abbiamo lasciato Jung che giocava con le pietre costruendo muretti nel suo giardino come gli uomini di Stonehenge. Questo gioco era un rito, un’attività trascendente, quindi un simbolo trasformatore. La costruzione del “temenos” (recinto sacro) era una psicogonia una costruzione della propria psiche.
Nel 1923 Jung inizia una costruzione (di sé) molto più evoluta: una Torre vera in cui abitare. In seguito, ogni 5 anni circa, Jung aggiungerà alla Torre un pezzo di casa, come se in tal modo trovasse, costruisse e integrasse una nuova parte di sé sottraendola all’inconscio.
Che questa casa fosse veramente il Sé, lo dimostra il fatto che non voleva che nessun altro l’abitasse. Lo permise solo a Toni Wolff. Ma Toni era la sua Anima, la giovinetta senza la quale per un uomo è imprudente intraprendere viaggi iniziatici, perché l’Anima/us è, come vedremo, il tramite per l’inconscio.
L’Opera omnia
Le opere di Jung sono state lentamente pubblicate in italiano dalla Bollati Boringhieri in 28 anni, dal 1965 al 1993.
Si tratta di 22 grossi volumi in cui sono raccolti 202 saggi principali (seminari esclusi), all’interno dei quali si distinguono alcune tappe significative:
– 1912 Trasformazioni e simboli della libido
– 1916 La funzione trascendente/La struttura dell’inconscio
– 1920 Tipi psicologici
– 1928 L’io e l’inconscio (topica, energetica, dinamica)
– 1943 La psicologia del transfert
– 1944 Psicologia e alchimia
– 1951 Questioni fondamentali di psicoterapia
Sul Lago Maggiore
Dal ’33 in poi per un mese all’anno Jung abitò a Casa Eranos, insieme ai massimi orientalisti e studiosi di antropologia e religioni. Fra questi Eliade e Karenji, Zimmer e Neumann. Il clima a casa Eranos era, e ancora è, interdisciplinare.
Nonostante l’aspetto interdisciplinare dell’evento di Eranos, Jung fu riconosciuto come lo studioso egemone, tanto che anche dopo la sua morte le conferenze furono sempre gestite da junghiani pur se l’argomento non fu quasi mai di carattere psicoanalitico.
Possiamo quindi dire che Eranos è sempre stato un circolo junghiano con temi annuali che sono stati i più vari e questo testimonia la natura dei vasti interessi culturali dello junghismo.
La contraddizione apparente
Jung è considerato contraddittorio, ma egli lo è solo in apparenza. Ci sarebbe contraddizione se si dessero nelle sue Opere due definizioni diverse di una stessa cosa colta nello stesso momento.
Ma Jung non fa mai questo: non dobbiamo mai dimenticare che Jung è dialettico e che ogni sua struttura può attraversare tre fasi successive. Più che altro Jung ha il difetto di non avvertire il lettore di questo.
Jung parla indifferentemente di una di queste tre fasi senza precisare a quale si stia riferendo. Così può dire che l’Anima è nera oppure altrove dire che è bianca o gialla e più in là ancora dire che è rossa. Jung omette di dire: “ha cambiato colore nella notte, ieri era verde”.
Il lavoro degli allievi
Il fatto è che queste affermazioni sono tutte vere e noi sappiamo perché, ma ciò che sconcerta è che Jung pare non sentire l’obbligo di avvertire il lettore che la contraddizione è solo apparente. Occorre ricordare che lo scolaro Jung in matematica era una frana e quindi aveva anche difficoltà ad essere ordinato.
Jung è l’uomo degli scherzi beffardi e delle risate fragorose; non è un uomo di comunicazione. Non gli interessa nulla se il lettore non capisce; l’importante è che ci capisca lui. Il lavoro di sistemazione di discepoli ed esegeti fu dunque, e tuttora è, molto impegnativo.
Che cosa è veramente caratteristico di Jung?
La compensazione della unilateralità della coscienza
La congiunzione degli opposti
I momenti sacrificali di compensazione
L’immaginazione attiva (oggettivazione delle emozioni)
Il simbolo mediatore
La dialettica alchemica e la nekyia
L’amplificazione filogenetica
La trasformazione (degli atteggiamenti)
L’inconscio collettivo
La dottrina dei complessi archetipici
La distinzione degli integrati
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L’influenza di Hegel, Wagner e Nietzsche sulla nascita della psicodinamica junghiana
Slides di Luciano Rossi
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Bayreuth, 1872
Il 22 maggio 1872 viene posta la prima pietra del teatro wagneriano di Bayreuth.
Cominciava quel giorno per Wagner il sessantesimo anno di vita (nato nel 1813, compiva infatti 59 anni).
Tutto quello che sino ad allora Wagner aveva fatto, era stato solo una preparazione a quel momento.
Ma, per Nietzsche (1844-1990), il Wagner di quel giorno non è più quello di Tribschen. L’amicizia e la grande pace della frequentazione domestica gli appaiono infrante.
Tribschen, 1869
Nietzsche nel 1869 ha 25 anni, è già stato nominato professore di filologia classica all’Università di Basilea ed ha appena conosciuto Wagner.
Lo visita spesso nella sua casa di campagna e scrive in proposito, entusiasta, a E. Rohde: “Anch’io ho la mia Italia; si chiama Tribschen”.
… e a Paul Deussen, lo stesso anno: “Recentemente ho avuto un avvicinamento felice a Wagner, il genio più grande e l’uomo più grande del nostro tempo”.
Nei loro primi incontri Wagner appare a Nietzsche come l’artista più indipendente e libero, un genio ideale e il perfetto maestro
Un filologo senza vocazione e il suo terapeuta
Prima di conoscere Wagner, Nietzsche è solo un filologo senza vocazione. E tale probabilmente sarebbe rimasto senza Wagner.
È in Wagner che Nietzsche trova il coraggio di cominciare a credere in se stesso.
Nietzsche comprende subito quanto sia importante ciò che Wagner gli può dare.
E scrive ad un amico: “Non si può descrivere ciò che a Tribschen imparo e osservo. Schopenhauer e Goethe, Eschilo e Pindaro vivono ancora, credimi”.
Metà della missione di Wagner
Ma se Wagner è un amico sincero, non è tuttavia disinteressato.
Nietzsche è utile a Wagner per far breccia nell’ambiente accademico, finora sordo alle teorie estetiche del musicista.
Nietzsche ha solo 25 anni ma, essendo già ordinario di filologia classica a Basilea, le porte dell’Università sono aperte alle sue idee.
E Wagner gli scrive abilmente: “Ella potrebbe liberarmi di gran parte del mio compito … perciò resti filologo e mi aiuti ad instaurare il grande Rinascimento”
Tutta la missione di Nietzsche
Ma per Wagner la filologia dev’esser tutta la missione di Nietzsche; dunque Wagner gli tarpa le ali dopo avergli insegnato ad essere ben di più di un filologo.
Per il momento Nietzsche non ne è per niente disturbato, perché non conosce ancora le sue potenzialità.
L’essere ammesso come figlio nella cerchia familiare del Maestro e partecipare alla sua opera, ancora gli basta.
Inquietudine
È invece a Wagner che la pace di Tribschen non basta. Egli desidera l’acclamazione delle genti e un monumento alla sua grandezza.
Desidera un teatro tutto suo, destinato solo alle sue opere, che lo liberi dalla tirannide degli impresari e dal cattivo gusto di un pubblico diseducato …
… e che sia anche un Tempio del genuino sentimento nazionale.
In questo delirio solipsistico Nietzsche non vuole seguirlo e cerca dapprima di tenersi lontano da Bayreuth.
Dal chiostro al mondo
Bayreuth rappresenta davvero, afferma Nietzsche, “la vittoria più grande che un artista abbia mai riportato”.
Con Bayreuth un artista sconfigge la società: può rifiutarle la subordinazione, la costringe a riconoscergli autorità, le impone le proprie leggi.
Quella di Wagner, che si chiude nel suo teatro, è una strana fuga dal mondo che chiama il mondo a sé, una cultura claustrale che trova nel ritiro la propria notorietà.
I suoi allievi partecipano della grandezza religiosa ed estetica del Movimento. Esser wagneriani a Bayreuth significa raggiungere un sentimento di libertà e di grandezza.
La tetralogia
È però anche una vittoria del germanesimo teutonico. Bayreuth sarà infatti inaugurata nell’agosto del 1876 con la tetralogia de “L’anello del Nibelungo”.
La tetralogia è un inno alle radici popolari germaniche e un utopistico sogno di rigenerare la società umana:
L’oro del Reno
La Valkiria
Sigfrido
La caduta degli dei (Gotter Damerung)
Critiche eccessive
La tetralogia è l’opera wagneriana che più riguarda il nostro tema. È qui che, più che altrove, Wagner appare un profeta ariano e si colloca all’interno dei temi studiati da Jung.
La critiche di Nietzsche, mosse da preoccupazioni sociali e politiche, davvero appaiono oggi eccessive. La sincerità e la grandezza dell’artista Wagner sono indubitabili.
Bayreuth appare piuttosto dettato dalla necessità di trovare un’isola di purezza, uno spazio minuscolo in cui potersi esprimere; appare al servizio dell’umanità e dell’arte, ancor più che dell’artista.
L’abbandono
Nietzsche, preso invece da progetti politici e sociali, desidera una Bayreuth diversa: non com’è, ma come dovrebbe essere.
Nietzsche però nel ‘76 è ancora il massimo teorico del wagnerismo: un suo eventuale silenzio nelle celebrazioni trionfali di agosto sarebbe imbarazzante; anzi di più, sarebbe un tradimento.
E lui non vuole tradire, ma non può neppure mentire. Con somma abilità scriverà un documento capolavoro e userà Wagner contro Wagner.
Sottolineando alcuni aspetti di Wagner, ne criticherà implicitamente altri. Elogiando il socialista di Dresda, affosserà il profeta di Bayreuth.
Dresda
A Nietzsche resta il Wagner di Dresda, il socialista delle barricate e dei discorsi infiammati, anche se utopici e ingenui.
Con lui un punto d’incontro ancora c’è: la costituzione di una nuova società e di una nuova coscienza collettiva.
Nietzsche punta dunque sullo stratagemma di ricordare a Wagner ciò che era stato, per indurlo a tornare a se stesso, a quello di un tempo.
La cultura di Bayreuth non è finalizzata alla “vita”; è fine a se stessa, non ad una prassi politica.
Wagner ha contatti solo con quel mondo che s’interessa a lui e che lo viene a trovare nel suo Teatro.
La filosofia della prassi
Per Nietzsche occorre richiamare la cultura (e Wagner) alla vita e all’azione. Dunque celebra Bayreuth, ma a Bayreuth dice cosa dovrebbe essere.
Per Nietzsche l’arte, e Bayreuth con essa, devono servire al cambiamento; si cominci dunque col cambiare la cultura e si passi poi a cambiare la società.
Occorre che la filosofia diventi prassi, sia pure simbolica, del cambiamento e della rigenerazione.
Freud, Adler e Jung metteranno in pratica questa indicazione; saranno loro gli applicativi, i tecnologi della rigenerazione, come, prima di loro, i filosofi Hegel, Nietzsche e Wagner ne erano stati i teorici.
Il popolo poeta
La riforma dell’arte richiede anche un pubblico nuovo, disponibile al mutamento della coscienza personale e collettiva.
Nietzsche pensa che, se lo sforzo di raggiungere questo pubblico fallisce, l’opera del genio diventa inutile.
n Bayreuth deve dunque rivolgersi ad un pubblico aperto alla trasformazione, un pubblico diverso da quello borghese.
Wagner, l’iniziato
Bayreuth divenne il solo luogo dove si poteva vedere il Maestro.
E anche il luogo dove si poteva nascere a nuova vita
Gli adepti sentivano di uscire dal Teatro, dove si celebrava il Festival wagneriano, totalmente trasformati
Il Teatro era un Tempio, un santuario a cui si andava in pellegrinaggio.
Lo psicologo Nietzsche
È però soprattutto sul primo Wagner che occorre puntare gli occhi. Senza il Wagner di Tribschen il mondo non avrebbe avuto lo psicologo Nietzsche
E, in assenza di Nietzsche, per quanto azzardata possa apparire questa affermazione, non avremmo forse avuto Freud, Adler e Jung.
Le citazioni che seguono potrebbero apparire di Freud, Adler e Jung e invece sono di Nietzsche
Per Ludwig Klages, Nietzsche è “il vero fondatore della psicologia moderna”; e per Thomas Mann è “il più grande psicologo della morale noto alla storia della mente umana”.
Nietzsche: citazioni sparse
Una quantità di energia psichica accumulata può attendere fino al momento di venir utilizzata
La mente umana è un sistema di pulsioni
L’energia psichica può venir trasferita da una pulsione all’altra
L’uomo è un essere che inganna se stesso: la psicologia ha il compito di smascherarlo.
L’inconscio è la parte essenziale dell’individuo; ciascuno è agli antipodi di se stesso
L’inconscio è una zona di pensieri confusi, di emozioni, di pulsionin I sogni ricordano la condizione della psiche umana nei suoi stadi più primitivi.
Il sogno è la ripetizione di frammenti appartenenti sia alla nostra preistoria personale che alla preistoria dell’umanità.
Esistono pulsioni sessuali, pulsioni di lotta e pulsioni sociali.
La pulsioni sessuali e quelle aggressive possono essere sublimate.
Dimenticare non è semplice inerzia, ma piuttosto una facoltà attiva
“Io ho fatto questo” – dice la memoria. “No, non posso aver fatto questo” – replica l’orgoglio e resta irremovibile. Alla fine la memoria si arrende.
La rinuncia alla gratificazione e il volgersi delle pulsioni contro l’individuo stesso sono all’origine della civiltà.
L’origine della coscienza morale è dovuta all’impossibilità dell’uomo di scaricare le pulsioni aggressive e al suo rivolgerle verso l’interno.
La coscienza morale è la voce di alcuni uomini all’interno dell’uomo.
L’ultimo-uomo e l’oltre-uomo
Di fronte alla degenerazione Zarathustra grida: “Ecco, io vi insegno l’oltre-uomo” e con esso la strada di rinascita-redenzione-rigenerazione dalla condizione di ultimo-uomo.
L’ultimo-uomo è “imperfetto”, ma suscettibile di evoluzione.
Anche Jung indicherà il Sé come meta evolutiva e l’individuazione come sentiero per arrivarvi.
La psicodialettica chiama Artifex l’ultimo-uomo creativo che decide di evolvere verso il Sé.
Lo “psichiatra” Kraepelin (1856-1926)
Kraepelin, il grande psichiatra contemporaneo di Freud, resterà il prototipo della psichiatria descrittiva.
La psichiatria descrittiva si limita a descrivere i sintomi e a classificarli. Non pone in atto nessuna cura psicologica.
La seconda psichiatria dinamica nata con Freud ricerca invece le cause e cura intervenendo su di esse.
Si chiama dinamica perché scopre che a generare la malattia sono delle forze (dynamis) in conflitto
Ma in quegli anni è ancora Kraepelin ad essere più accreditato.
Il terapeuta Hegel
Hegel mette sul suo lettino l’umanità e osserva la presenza nella storia di una dialettica intrinseca (filo-genesi o nascita della specie).
Non solo. Tale dialettica è presente anche nella storia del singolo individuo (onto-genesi o nascita dell’organismo singolo).
Con una sintesi efficace la legge biogenetica di Haeckel affermerà che “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”.
In altre parole sia nell’intera umanità che nel singolo individuo osserviamo un succedersi di tesi, antitesi e sintesi.
Tesi, antitesi e sintesi devono succedersi in quest’ordine per un’evoluzione sana e non interrotta.
Abbiamo così tre condizioni successive:
La condizione tetica (indifferenziata, fusa, confusa)
La condizione antitetica (separata, antinomica, oppositiva)
La condizione sintetica (ricomposta, ricongiunta, riconciliata)
Per passare dall’una all’altra condizione la dialettica mette in atto due capovolgimenti o negazioni
Si tratta di due negazioni particolari (aufhebung, da aufheben = negare per inverare)
Una negazione provvisoria, l’aufhebung, che ha il solo scopo di ritornare alla posizione precedente
Nello specifico la prima negazione è la separazione dell’intero in due parti (negazione dell’unità), mentre la seconda è la negazione della separazione, un ricongiungimento che ridona l’unità.
La prima è una differenziazione di due cose che erano fuse; la seconda un’integrazione dei separati per riavere l’unità.
Wagner e Jung
Jung era un wagneriano, amava la musica di Wagner e sicuramente questa influenzò le sue idee di individuazione.
Per Jung una figura rilevante fu Sigfrido, che considerò un eroe solare come l’egiziano Horo.
Durante il confronto con l’inconscio sognò alcune volte l’assassinio di Sigfrido.
Con Sabina fantasticò d’avere un figlio con questo nome.
A Kusnacht egli creò la Bayreuth degli junghiani.
Il terapeuta Wagner
Per Wagner a curare la Germania dalla sua decadenza ci penseranno l’arte e la musica
E lo faranno rievocando i miti eroici degli antichi teutoni, che Wagner fa rivivere nella Tetralogia dell’Anello
Il cammino del popolo germanico verso la salute è un sentiero eroico simile a quello percorso dall’eroe Sigfrido
Il terapeuta Nietzsche
L’ultimo uomo è un uomo indifferenziato che si trova in posizione tetica
Non possiamo lasciarlo così; egli, così com’è, è imperfetto. Deve diventare un oltre uomo e può farlo, in quanto è aperto a possibilità evolutive.
Nietzsche si serve di Zarathustra per insegnare il modello della salute (l’oltre-uomo) e la via per arrivarci (rigenerazione, rinascita, iniziazione).
La volontà di sintesi, la “grande ragionevole salute”, è la sua filosofia.
Il terapeuta Jung
Con parole simili a quelle di Zarathustra è come se Jung dicesse: “Ecco io v’insegno il Sé e la via per raggiungerlo”
V’insegno il Sé come punto d’arrivo dell’evoluzione
… e l’individuazione come mezzo per raggiungerlo
Il suo è il modo psichicamente sano per mettere in pratica le dottrine di Nietzsche evitando loro le insidie psichiche in cui potrebbe incorrere una psicologia ingenua.
L’uomo tetico, ancora inconsapevole, dovrà scorgere dentro di sé l’esistenza di due parti in conflitto e separarle
Avvenuta la separazione dei due, dovrà metterli uno di fronte all’altro e farli dialogare (uomo antitetico)
Il dialogo avrà la funzione e il compito di farli riunire ma questa volta nella distinzione (uomo sintetico)
Il riunito, ma in se stesso distinto, è il Sé, l’uomo individuato.
La psicodialettica
La psicodialettica, sulla scorta di chi l’ha preceduta e di cui è tributaria, dà una particolare definizione
della malattia dialettica
della terapia dialettica
della salute transpersonale o archetipica. E dice:
Malattia è mancanza di evoluzione; è non essere integrati quando si dovrebbe esserlo
Terapia consiste nel far riprendere il cammino evolutivo interrotto
Salute è lo stato di sintesi o integrazione
Due malattie psicodialettiche
Malattia tetica: il trovarsi nella prima fase, ossia il permanere in uno stato di indifferenziazione, di fusione, di confusione, di indistinzione che possiamo riscontrare fra Io e Non-Io, fra coscienza e inconscio, in un periodo della vita in cui questo non è più normale. Anche la salute medica o normopatia ortopedica, anche la condizione di ultimo-uomo di Nietzsche o di uomo tetico di Hegel, sono affette da questa malattia.
Malattia antitetica: il trovarsi nella seconda fase, ossia il permanere in uno stato differenziato ma non integrato, in una condizione separata, oppositiva, antinomica, antitetica, in cui l’Io e il Non-Io non riescono ad integrarsi. Anche la condizione di uomo freudiano è affetta da questa malattia.
Terapia psico-dialettica
La terapia evolutiva-dialettica-individuativa (EDI) consiste nel far intraprendere all’uomo tetico, o riprendere all’uomo antitetico, il cammino evolutivo e nel rendergli possibile l’evoluzione negata.
La psicodialettica sembra dire, sulla scorta di Jung e di Nietzsche: “Ecco, io v’insegno l’uomo individuato come prima conquista evolutiva e il processo quinario come mezzo per raggiungerla”.
Ma ci sarà una successiva conquista dialettica, non prevista da Jung: andare oltre il sé definitivo, verso anatta, il non-sé. L’eroe dovrà rinunciare all’idea che il Sé, appena conquistato, sia permanente.
Terapia tetica
La salute medica è una salute tetica. La salute sintetica o transpersonale non si accontenta di questo.
Anche se il soggetto tetico è bene adattato socialmente, è tuttavia ancora un uomo standard, che non ha ancora scoperto niente del suo patrimonio archetipico.
La terapia tetica consiste nel far iniziare al singolo il cammino transpersonale teso alla visione sempre più chiara dei suoi archetipi e complessi e al dialogo con i medesimi.
L’atto di passaggio dall’oscurità alla visione e al dialogo è temuto perché immaginato come il varco d’una soglia custodita da un drago: il guardiano della soglia.
Terapia antitetica
La terapia antitetica è la seconda operazione del processo quinario.
Dopo aver superato la soglia della “camera di mezzo” il complesso dell’Io dialoga con i complessi del Non-Io. La terapia EDI possiamo dunque chiamarla una “psicoterapia complessa” o “dei complessi”.
L’Io dialoga coi complessi e si avvicina gradatamente a loro, sostando a conversare con loro sulla linea di confine fra coscienza e inconscio.
L’Io imparerà a familiarizzare e a collaborare con il numeroso popolo dell’inconscio collettivo (Ombra, Anima, Grande Padre, Grande Madre, Puer eternus, la fanciulla Core, il Vecchio Saggio, ecc.).
La “grande ragionevole salute”
È la condizione d’integrazione, di oltre-uomo.
Quella cui si perviene dopo in soggiorno in due fasi (tetica e antitetica) e due capovolgimenti opposti (duplex negatio)
La duplex negatio è negazione dell’uno per avere il due e negazione del due per avere nuovamente l’uno (in se stesso distinto)
“L’ultimo-uomo diviene creativo (artifex sui) e capace di vedere l’inconscio: si toglie perciò successivamente prima dalla condizione tetica e poi da quella antitetica attraverso le tecniche di visione, dialogo, accettazione e collaborazione”
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Dall’archetipo al simbolo
di Luciano Rossi
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L’archetipo
Gli archetipi si manifestano nei sogni, nell’immaginazione attiva, nei miti, nelle fiabe, nelle religioni; ne riscontriamo la presenza anche nelle fantasie degli psicotici.
Si tratta di forme tipiche dei modi di pensare e di agire dell’uomo, e quindi una possibilità innata di rappresentazione che in quanto tale presiede all’attività immaginativa. Analoghi alle idee platoniche o alle categorie a priori kantiane, gli arche-tipi junghiani sono tipi arcaici o primigeni, immagini universali presenti nell’uomo fin dai tempi più remoti.
Nella topologia psichica, gli archetipi sono posti da Jung nell’inconscio collettivo.
Dunque, connessa all’ipotesi degli archetipi è l’altra ipotesi della presenza nella psiche umana di un “inconscio collettivo” che ne sarebbe il depositario.
Jung annuncia perciò la presenza nella psiche umana di “immagini” e “disposizioni alle immagini” che hanno un carattere immutabile, universale e imperituro.
Il sé transpersonale
Sogno: Liverpool, nebbia, pioggia, fumo. Al centro una piccola isola, su cui sta un solo albero su cui splende il sole e che spande luce intorno a sé. I miei compagni non notano né l’albero, né il sole, e non capiscono perché uno svizzero possa esser venuto ad abitare qui. Io penso: “So bene perché si è stabilito qui. (rsr, pag. 242).
Dopo il sogno Jung smise di disegnare mandala. Il sogno rappresentava il culmine di tutto il processo di sviluppo della coscienza, il raggiungimento del Sé. Ma anche una prima intuizione del suo mito personale: l’alchimia. Per singolare sincronicità Wilhelm gli invia in quel periodo un testo alchemico cinese: il segreto del fiore d’oro
Trasformazione operata dal simbolo metapoietico
Jung insegna come trasformare l’oggetto conosciuto (come pericoloso) col simbolo metapoietico.
In questo modo avviene una sintesi potente e sconosciuta ad ogni altra psicologia: quella di passare dalla contrapposizione alla sintesi con una semplice trasformazione operata dal simbolo metapoietico.
Jung aveva visto questa trasformazione all’opera nei simboli della storia dell’umanità, nei miti, nei riti dei popoli.
Analogia: Il simbolo sinizetico
Il simbolo sinizetico (terra) è qualcosa di analogo a (o che sta per, o che viene posto in luogo di) qualcosa di sconosciuto, di inquietante, di divorante (imago materna).
È questa “analogia” che fornisce potenza al simbolo, la sua funzionalità, la possibilità di trasferire il numinoso di cui era investito l’oggetto proibito (madre).
Ma c’è un’altra domanda a cui rispondere. Se, per esempio, l’imago inquietante e pericolosa è quella della madre, domandiamoci: che cosa l’aveva resa tale? Una ragazza, fino a ieri figlia, oggi divenuta madre, come mai diventa improvvisamente terribile e inquietante? E agli occhi di chi diventa tale?
Diventa tale agli occhi del figlio. E questo accade perché la madre non è più un oggetto concreto ma diventa agli occhi del figlio un’imago, un archetipo. Che cos’è che la fa diventare così? È la libido del figlio, proiettata, a renderla tale.
Se questo archetipo è inquietante meglio allora rivolgersi all’acqua, alla terra, alla fertilità, più chiare e rassicuranti.
Ci sono due passaggi: uno fra numen (archetipo a priori del figlio) e madre (imago numinosa) e uno fra madre e terra (oggetto semplice e concreto)
Il trasferimento di qualità potenti e numinose avviene, attraverso due passaggi, da qualcosa di vago e inquietante a qualcosa di analogo, ma semplice e concreto. C’è qualcosa di potente e numinoso che passa dall’imago inquietante (numen) all’oggetto analogo, semplice e concreto, rendendolo numinoso e terribile.
Mito e psicosi
Nell’energetica junghiana sembra di assistere ad un dramma eroico e terribile; non ci sono più, qui, le fredde e tecniche considerazioni economiche freudiane.
La differenza fra i due sta nel fatto che, queste immagini potenti, freud non le può vedere nei nevrotici che cura. Jung invece cura psicotici che vedono oggetti terribili e grandiosi. Jung scorge, per gli psicotici, una possibilità di cura nell’attività simbolica.
Simboli della libido
Il soggetto junghiano, come il freudiano, non può accostarsi all’imago terribile, ma, a differenza di lui, potrà accostarsi, dopo averlo costruito con l’attività simbolica, al sostituto analogo, divenuto “simbolo della libido”. Il figlio costruisce una madre simbolica e consuma l’incesto con il simbolo di lei.
I due opposti così possono incontrarsi. All’interno del soggetto è il proprio maschile che incontra il proprio femminile, la coscienza che incontra l’inconscio, l’io che incontra l’ombra, la persona che incontra l’anima.
Trasformazione
Non sono più i due opposti originari, quelli che s’incontrano. Uno dei due è cambiato, trasformato nel simbolo e dal simbolo, e allora l’unione è possibile. Questa unione può essere religione, o arte o dialettica esistenziale.
Solo uno dei due, l’io, è artefice, artifex, che compie l’opera, facendosi costruttore di simboli, di relazioni dialettiche, di evoluzione.
L’io, terzo che contiene i due conciliati, è ora un individuato.
L’individuazione è un processo che consiste nel divenire capaci di dialettica fra cultura e natura risolvendola tramite il simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto terribile e vietato, che doveva restare altrimenti separato e antinomico.
L’incesto, vietato con l’oggetto originale istintuale, è ora possibile con l’oggetto simbolico. L’unione col simbolo è consentita e, a suo modo, soddisfacente. L’attività simbolica, apparentemente in antitesi con la vita istintiva, è proprio quella che le consente la sua unica possibilità espressiva e integrativa.
Interpretazione ampliativa.
L’ampliamento della coscienza a seguito dell’interpretazione ampliativa è solo un restringimento dell’inconscio, non una sua sconfitta. L’incontro dei due avviene nella coscienza. Il loro prodotto, la sintesi, risiederà nella coscienza. Nella terapia junghiana viene recuperata una fascia più grande d’inconscio, perché si recupera parte di inconscio collettivo: i simboli universali e gli archetipi. Occorre ampliare la coscienza senza rigonfiarla, senza hybris. Jung espresse questa possibilità parlando di numinosità, cioè della potenza pericolosa, sovrumana e affascinante dei contenuti dell’inconscio, pericolo reale di sommersione che corre l’io al loro contatto.
L’inconscio si traveste da simbolo.
Come avviene tutto ciò? Dal momento che l’operazione è vietata, il contatto deve avvenire attraverso l’opera di mediazione fra chi impone il divieto e chi desidera infrangerlo. La mediazione, nel nostro caso, consiste in questo compromesso: se l’inconscio si traveste da simbolo può venire alla luce. Non si può fare l’amore col padre, si può fare l’amore col simbolo del padre. La nevrosi era stata un compromesso fra gli stessi due termini del conflitto. Soluzione sbagliata tuttavia, quella, perché interrompeva il dialogo.
Simbolizzare e scaricare.
Il simbolizzare ottiene la stessa distensione ottenuta con lo scarico. Esempio: se la terra è il simbolo della madre e per il figlio il congiungersi con la madre non può venire a giorno, può invece per lui divenir conscia l’intenzione di coltivare e seminare la terra, attività in cui si scarica un’energia di tipo sessuale.
La coniunctio oppositorum.
Fra i due opposti c’è da prima la separatezza, per il divieto di contatto diretto con l’oggetto, a causa della pericolosità dell’altro da sé. Ma si può sostituire quest’ultimo con il simbolo lecito. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L’unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell’oggetto) è concessa. In terapia il simbolo è impersonato dall’analista. Analista che è analogo al padre e analogo alla madre. È l’analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante, a qualcosa di “analogo”.
Il simbolo mediatore.
Ma prima, all’inizio, padre e madre dovevano essere oggetti innocui. Cos’era poi accaduto? Come mai il padre e la madre non sono più oggetti semplici e concreti, ma sono diventati, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili? La qualità sconosciuta e inquietante che rende temibili padre e madre è la libido del figlio, che fa di un oggetto innocuo una “imago” archetipica. Ora questa imago, inavvicinabile a causa del divieto, dev’essere trasformata in un simbolo accessibile. Chi lo farà? Sarà la capacità riflessiva del conoscente che trasporta la libido dall’oggetto al simbolo (transfert?) E poi s’interesserà solo di lui. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto divenuto simbolo della libido. Dei due opposti uno solo compie l’opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo (l’oggetto-analista). La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché “risolta” dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto. Risolta perché l’unione fra i due ora può avvenire. Si opera la sintesi di soggetto e oggetto: ne risulta il sé, il figlio della coppia bambino-genitore, colui che è completo. La madre diventa il femminile interno al figlio con cui il maschile del figlio può congiungersi.
“Potremmo chiamare il mettere insieme col nome di sintesi, ma la sintesi cui allude Jung ha uno statuto logico e ontologico arduo. Essa è sì un superamento dell’originaria opposizione, ma tale che il conflitto dei termini opposti si conservi in una tensione produttrice o meglio ancora creatrice e trasformatrice. Talché simbolo e trasformazione assumono il significato di aspetti complementari dello stesso fenomeno. Questo sembra essere il nucleo significativo del simbolo junghiano, che, in tal modo tornerebbe ad essere il sin-ballo originale. Il simbolo allora è, nel suo più profondo significato, congiunzione degli opposti”.
Perseo.
L’unico eroe capace di tagliare la testa della medusa è Perseo perché non rivolge il suo sguardo sul volto della gorgone ma solo sulla sua immagine ‘riflessa’ sullo scudo di bronzo. Si vede qui l’importanza della mediazione “riflessiva” dello specchio che fornisce l’analogo dell’oggetto temuto, analogo che può essere, sotto questa specie, guardato e affrontato. Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo, non guardandolo direttamente, ma con le mediazione di un terzo: lo scudo che attenua la terribile immediatezza dell’oggetto]. È sempre in un rifiuto della visione diretta o immediata che sta la forza di Perseo, ma questo rifiuto non è un rifiuto della realtà del mondo dei mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello, bensì una strada verso la mediazione che sola ci permette di affrontare l’inconscio. (L. Rossi, Negazioni, p. 55)
Un sogno.
Sono in una stanza d’ospedale. Davanti a me un degente sta male; in lui si manifestano, oltre al dolore, anche gli aspetti corruttibili della nostra natura di corpi fatti di fango e destinati alla decomposizione. Sono appoggiato contro il muro opposto, quasi schiacciato contro di esso, per restare il più lontano possibile da quel cumulo di biologia respingente, con il quale non posso e non voglio avere alcun contatto.
Ad un certo punto, alla mia sinistra, si apre nel muro una porta ed esce un medico pulitissimo in camice bianco che si dirige verso un tavolino che fino a quel momento non avevo notato e sul quale sono sistemati un monitor e una tastiera. Il medico batte alcuni tasti, compaiono parole in greco antico, un encefalogramma ed altri segni incomprensibili. L’operatore riflette alcuni istanti poi estrae una siringa e fa un’iniezione al monitor. Il tracciato si regolarizza, i segni strani spariscono. Il monitor è guarito. In secondo piano, lontano, il paziente è sfuocato, non ha più volto né interesse; non mi angoscia più. Si vedono due cavi, ‘analogici’ si sente dire nella stanza, che collegano il corpo ammalato al monitor.” (Negazioni, p. 54)
La mediazione riflessiva.
Vi sono tanti aspetti della realtà in cui i due opposti non possono avere rapporti diretti. È allora che occorre l’opera del terzo. Il soggetto, in quanto capace di produrre simboli, opera una trasformazione dell’oggetto, a sua volta capace di assumere in sé il simbolo in forza dell’analogia, e lo investe di energia. Per prendere contatto con gli oggetti naturali in via mediata, occorre che la parte riflessiva o epistemologica del soggetto operi una trasformazione dell’oggetto da naturale a simbolico (ma in realtà si tratta di uno spostamento dell’investimento dall’oggetto originario all’oggetto simbolico), mediante l’operazione che il sogno ci ha indicato, e prenda poi contatti con l’oggetto simbolico da lei costruito con un procedimento creativo e artificiale. Anziché rapportarsi immediatamente con un oggetto naturale, il soggetto si rapporta con esso in modo mediato, tramite un oggetto da lui stesso prodotto. […] L’artifex costruisce dunque se stesso: oggetto simbolico per un certo verso, soggetto di un’operazione epistemologica per un altro verso. Oggetto privo di mistero e di pericolo, è stato creato traendolo dalla natura, che deve esser assoggettata per questo ad un artificio consapevole della riflessione se si vuole che il soggetto sappia di se stesso e colga la forza dell’analogia che ha permesso la trasformazione dell’oggetto inquietante. Il soggetto ora sa con chi si rapporta e da quale posizione. Egli percepisce se stesso all’interno del terzo come soggetto riflessivo e sa di rapportarsi col terzo in quanto oggetto trasformato. Riflettere, distinguere e giudicare non è semplicemente negare o fuggire l’immediatezza del naturale ma soprattutto affermare la maggior adeguatezza, ai fini ontologici, della mediazione riflessiva. (Negazioni, p. 56)
Miss Miller.
Furono i pazienti a mettere nell’orecchio di Jung la pulce della mitologia o non fu piuttosto il contrario? Lui conosceva già molti miti e gli era facile trovarli o forzarli nei sogni e nelle fantasie dei pazienti. La svolta decisiva avvenne col caso della signorina miller (1912). Miller faceva fantasie erotiche su un eroe. Jung studiò tali fantasie ed istituì dei paralleli fra queste e vicende mitologiche a lui note. Il caso di un singolo veniva paragonato al caso dell’umanità (mito). Quali che siano le vicende infantili personali alla base delle fantasie di miller, esse sembrano anche essere le fantasie dell’umanità intera. La vicenda personale si amplifica a dimensioni mitiche. Il sintomo si lega ai conflitti infantili, ma anche li trascende e si lega a simboli collettivi. Per cogliere il significato latente del materiale manifesto dei pazienti si prestano bene due tecniche aggiuntive che Jung elaborò: l’interpretazione ampliativa e l’immaginazione attiva. Dell’amplificazione abbiamo già parlato. Vediamo ora l’immaginazione attiva.
Immaginazione attiva.
S’induce il paziente a concentrarsi su immagini archetipiche e lo si esorta a trattarle, attraverso un’oggettivazione forzata, come se fossero reali e oggettive. Può disegnarle o dipingerle. In questo modo si evolve una storia e un dramma. Tale metodo viene usato per estrarre i contenuti inconsci, affinché, una volta siano stati resi visibili, l’io possa confrontarvisi anziché esserne in vario modo assediato. Ciò che viene oggettivato è anche la personalità n° 2, che altro non è che l’inconscio attivato e divenuto percepibile. Usata in modo sistematico, ia accelera i processi di formazione dei simboli. Le immagini hanno una vita propria e i simboli una loro logica interna. Se ci concentriamo su un’immagine e la lasciamo evolvere e agire si produrrà una serie di immagini che costituisce una storia completa. Nella parte finale dell’analisi ia prende spesso il posto dei sogni. Nella parte iniziale può essere usata, quando possibile e con molta cautela, in luogo dei sogni non prodotti o come lavoro su un elemento onirico.
Le istruzioni di Jung sull’immaginazione attiva.
Nella corrispondenza con un allievo Jung istruisce l’interlocutore così: “nella immaginazione attiva ciò che conta è che lei inizi con un’immagine qualsiasi … Guardi l’immagine e osservi come essa cominci a svilupparsi o a modificarsi. Eviti qualunque tentativo di darle una qualche forma determinata, non faccia altro che osservare le modificazioni che subentrano spontaneamente. Prima o poi ogni immagine psichica, osservata in questo modo, muterà forma sulla base di un’associazione spontanea (se all’immagine associo qualcosa, essa cambia). [ma] deve evitare con cura di saltare con impazienza da un tema all’altro. Si attenga all’immagine e aspetti che essa si trasformi da sola [è l’inconscio che la trasforma, non l’io]. Deve osservare con cura tutte queste trasformazioni e infine deve entrare lei stesso nell’immagine [e interagire con lei] … Se appare una figura che parla, allora dica anche lei [ossia che il suo io dica] ciò che deve dire e ascolti che cosa quella [ossia l’inconscio] ha da dire. Si deve entrare nella fantasia e costringere i personaggi a parlare e a rispondere. In questo modo non solo può analizzare il suo inconscio, ma anche dare all’inconscio la possibilità di analizzare l’io o la coscienza. Così, a poco a poco, si crea l’unità tra conscio e inconscio, senza la quale non c’è in assoluto alcuna individuazione.
Trasformazioni e simboli della libido
(1912). O, più tardi (1952), Simboli della trasformazione. Un libro lungo 40 anni. Tesi: Non si possono capire gli psicotici senza l’ausilio del linguaggio mitico.
A rinforzare questa convinzione sopraggiunge nel 1911 la pubblicazione delle fantasie di miss Miller.
Esce così “wandlungen” (1912), in cui viene narrata la nascita furiosa di un nuovo mondo psicologico
Amplificazione
Sviluppo, in ampiezza e intensità, delle espressioni inconsce onde permetterne una possibile lettura psicologica.
Uno specifico tipo d’amplificazione è il metodo comparativo: “per interpretare (…) I “prodotti” dell’inconscio… Li ho posti in analogia con i simboli della mitologia, della storia comparata delle religioni
Il luogo della mediazione
In quella che appare, per una visione statica, un’opposizione irriducibile, per una visione dialettica si dà, come possibilità latente non ancora percepita, un terzo polo disponibile per possibili operazioni di mediazione.
Fra i due opposti c’è dapprima separatezza, per divieto di contatto diretto con l’oggetto, a causa della pericolosità dell’altro da sé.
Ma poi si scopre che si può sostituire quest’ultimo con il simbolo. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L’unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell’oggetto) è concessa.
In terapia il simbolo è impersonato dall’analista. Analista che è analogo al padre, analogo alla madre.
È l’analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di accessibile, lecito, accettabile.
Il terzo simbolico
“… Il contrasto totale non conosce un terzo termine – tertium non datur! La scienza si arresta ai confini della logica; non così la natura … La venerabilis natura non s’arresta davanti al contrasto, ma se ne serve per formare, dagli elementi avversi, un nuovo essere”. (jung, 1946, la psicologia del transfert, il saggiatore, 1974, pag. 189).
Questo nuovo essere è l’essere che raggiunto la propria individuazione.
Senza individuazione, la coscienza rischia d’essere inghiottita da un lato nel conscio collettivo (sociale o culturale), dall’altro nell’inconscio impersonale, il collettivo naturale.
Attraverso l’individuazione, la coscienza però diventa capace di un incontro con entrambi, in modo personale, singolare, individuato.
Lo fa assumendosi il peso del proprio essere personali, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e dalle attese, tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società.
La congiunzione degli opposti
Come mai il padre e la madre in seguito non sono più oggetti semplici e concreti, ma sono diventati, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili?
La qualità sconosciuta e inquietante, che rende temibili padre e madre, è la libido del figlio, che fa di un oggetto innocuo una “imago” archetipica.
Ora questa imago, inavvicinabile a causa del divieto, dev’essere trasformata in un simbolo accessibile. Chi lo farà?
Sarà la capacità riflessiva del figlio che trasporta la libido dall’oggetto al simbolo e poi s’interesserà solo di quest’ultimo. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto trasformato (wandlungen) e divenuto “simbolo della libido” (symbole der libido).
Dei due opposti uno solo compie l’opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo della trasformazione, symbole der wandlung, (l’oggetto-analista).
La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché “risolta” dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto. Risolta perché l’unione fra i due ora può avvenire.
Il mito
Per millenni l’uomo è stato guidato dal mito, che non è invenzione fantastica ma rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo.
Racconto anonimo che è parte di un corpo di tradizioni oralmente tramandate tra i vari membri di una specifica comunità.
Jung considera il mito come una forma autonoma di pensiero e di organizzazione cognitiva del mondo.
Secondo Jung lo studio comparativo dei differenti miti risulta importante al fine di ritrovare quelle convergenze tematiche e quei motivi HotwordStyle=BookDefault; ricorrenti (vita, morte, abbandono, separazione, incesto, regressione, frantumazione, salvezza, creazione, distruzione ecc.) Che lo psicoterapeuta incontra nel suo lavoro.
I miti sono quindi importanti per comprendere quanto lo stesso inconscio offra simbolicamente al paziente, di fronte all’impossibilità della sua coscienza di assegnare, da sola, un senso a un momento specifico dell’esistenza.
Natura archetipica d’ogni complesso
La nozione d’archetipo si lega alla nozione di complesso.
In un primo tempo Jung aveva scoperto la “teoria dei complessi” attraverso gli “esperimenti sulle associazioni”. Successivamente era arrivato a formulare l’ipotesi della natura “archetipica” d’ogni complesso.
In questa teoria non si nega però la possibilità che un complesso si formi anche attraverso l’esperienza concreta e l’impatto problematico dell’individuo con gli altri individui, ma tale formazione è dovuta all’attività di un a priori archetipico.
Non si può parlare di una sola personalità, bensì dobbiamo pensare all’esistenza di varie personalità. È solo la maggiore permanenza del complesso dell’io a dare l’idea di una personalità unica ordinaria e permanente.
Gli elementi psichici che danno luogo a subpersonalità non si agglutinano a caso, ma si organizzano attorno ad un attrattore (un nucleo con proprietà costellanti) formando un complesso.
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Attività simbolica e trasformazione
di Luciano Rossi
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1 – Simboli sinizetici e simboli metapoietici
Il simbolo, in ambito junghiano, ha due accezioni principali, e in apparenza contrastanti (ma in realtà solo successivi): quello di emblema eletto a sostituto simbolico e quello di attività o funzione. Il primo è un nome, un concetto; il secondo è un rito, un evento, una cosa che il soggetto fa.
Queste due accezioni possono coesistere nella stessa teoria, perché sono due forme diverse di simbolo; addirittura possiamo dire, in altre parole, che sono due simboli diversi con due compiti diversi e successivi nel tempo. L’emblema è precondizione necessaria ad ogni possibile successiva attività simbolica che non potrebbe svolgersi avendo come protagonisti (dell’attività) i soggetti originari. Un’attività simbolica coinvolge sempre degli emblemi. L’emblema e l’attività simbolica vengono escogitati dalla coscienza, perché i soggetti originari e le loro attività o funzioni sono inaccettabili alla coscienza e oggetto di divieto.
L’emblema è il precursore del sostituto simbolico. Il percorso è il seguente.
- comparsa alla coscienza di un oggetto adatto
- attribuzione all’oggetto di un valore emblematico
- costituzione dell’emblema
- elezione dell’emblema a sostituto simbolico
- presenza alla coscienza del sostituto delegato alla transazione
- confronto al confine con altri simboli (rito, evento, attività)
Forse un esempio può chiarire meglio ciò che abbiamo affermato finora e quanto ci disponiamo ad affermare in seguito.
Esempio
Se i due soggetti originari sono il pene del figlio e la vagina della madre e la loro attività è il loro amplesso. Essi sono oggetto di censura e divieto; lo sono sempre per quanto attiene all’attività, e spesso anche per quanto riguarda la consapevolezza. Ma ci sono degli emblemi, che hanno libero accesso alla consapevolezza, che li possono sostituire senza che nulla cambi e ci sono riti ammissibili che li riguardano, e che possono ottenere travaso, scarico e trasformazione, ossia accedere anche alla motilità, come è tipico del rito. Se noi, per esempio, sostituiamo i soggetti originari, pene e vagina, con i due emblemi, lancia e buca-nella-(madre)-terra, e sostituiamo l’amplesso (attività proibita) con una danza e l’infissione della lancia nella buca (attività concesse), nella sostituzione emblematica dei due soggetti non cambia nulla (gli uni stanno per gli altri), mentre nell’attività rituale niente resta come prima (aliquid aliud fit).
La sostituzione nominale non è un’attività e non trasforma, mentre la sostituzione rituale cambia figlio e madre, coscienza e inconscio. Così, se dopo l’attribuzione di valore si scava effettivamente una buca, le si danza intorno con le lance in mano e poi si conficcano le armi nella buca, allora sì che si esercita un’attività, un lavoro, un travaso, uno scarico, che diminuisce l’energia inconscia ed accresce quella cosciente.
Possiamo allora dire che l’attribuzione di significato all’emblema è preventivamente necessaria, ma non sufficiente alla trasformazione. I due emblemi non possono confrontarsi se non attraverso la successiva attività.
La comparsa dell’emblema alla coscienza e il possibile avviamento dell’attività simbolica della psiche (dovuta all’attribuzione di valore all’emblema da parte della coscienza) sono due eventi successivi nella vita psichica.
Note:
- Affinché il simbolo possa prodursi è necessaria la collaborazione di coscienza (capacità di progettare) e inconscio (potenziale elevato)
- Il simbolo è prodotto dalla vecchia coppia coscienza-inconscio e a sua volta produce una nuova e diversa coppia coscienza-inconscio trascendendo la vecchia
- Il simbolo si configura come nascente dalla tensione degli opposti e come nuova funzione unificatrice che conduce oltre gli opposti
- Nessun oggetto è simbolo di per sé, nessun contenuto dell’inconscio è simbolo, se non quando la coscienza si assume l’onere della tensione, del riconoscere l’oggetto come simbolo e della composizione fra sé e l’inconscio. Alla croce viene attribuita capacità trasformatrice simbolica solo da certe coscienze.
- Tutto può costituirsi come occasione di attività simbolica se una coscienza se ne fa carico. Ogni cosa può diventare simbolo se il soggetto ne riconosce il valore di stimolo per un’attività che solo al soggetto appartiene o compete.
- L’oggetto inconscio in sé è solo emblema, anche se particolarmente adatto all’attivazione da parte di particolari coscienze. Il simbolo è dunque attività trasformativa e funzione trascendente. Per un errore linguistico fatale chiamiamo simbolo sia l’attività, sia l’oggetto che è occasione di attività.

Il futuro simbolo compare alla coscienza dapprima solo come un oggetto insignificante dell’inconscio, adatto però ad attivare nella coscienza una lettura simbolica. Si tratta di un oggetto (emblema, segno, contenuto) in sé neutro (e tale resta finché la coscienza non lo investe di significato), ma che costituisce un’occasione per un investimento possibile della coscienza, la quale ne riconosce il valore e prende a considerarlo capace di una funzione, ossia attività, sintetica e trasformatrice. L’inconscio da solo, senza l’attribuzione di valore della coscienza, non può produrre simboli, né sinizetici (oggetti che stanno per qualcos’altro) né metapoietici (attività o funzioni capaci di trasformare). Questi due termini, che vi prego di accogliere per ora acriticamente, assumeranno significati, spero sempre più chiari, nel proseguimento dell’esposizione.
Nel conflitto intrapsichico, come si vede nel disegno seguente, O, il desiderio che il figlio ha della madre, e l’impedimento interno, il padre internalizzato, anziché scontrarsi inviano ad un incontro i loro sostituti (R consente che G sparga il seme nella buca).
Un emblema, una volta eletto a simbolo sinizetico, si costituisce come sostituto o significante di qualcos’altro. Tale sostituzione avviene semplicemente perché il sostituto è meglio accetto alla controparte o più noto o più chiaro dell’oggetto originario. Ma questa attribuzione di significato inoltre può contribuire a farlo diventare attivo, ossia produttore di una nuova situazione (perché nell’incontro c’è travaso), di nuovi atteggiamenti (sia della coscienza, sia dell’inconscio), capaci di far “collaborare” (in forza del loro nuovo orientamento) coscienza e inconscio ad un lavoro comune: la strutturazione progressiva del Sé, che altro non è che la forma progressiva che via via assume successivamente la nuova psiche che, trascendendo i vecchi orientamenti di coscienza e inconscio, emerge ogni volta dal confronto degli opposti. Si tratta di una sequenza di sintesi successive in cui due elementi parziali (i.e. Io e Ombra), che si contrappongono, possono essere – in virtù dell’esperienza simbolica – ricombinati in un intero particolare (meglio in una nuova coppia) di ordine superiore, trasformando il conflitto in nuove configurazioni e dando luogo a nuove forme di coesistenza. Dopo l’incontro (esperienza simbolica) l’inconscio si sente scaricato e alleggerito; la coscienza ampliata e arricchita.
Potremmo chiamare il mettere insieme col nome di sintesi, ma la sintesi cui allude Jung ha uno statuto logico e ontologico arduo. Essa è sì un superamento dell’originaria opposizione, ma tale che il conflitto dei termini opposti si conservi in una tensione produttrice o meglio ancora creatrice e trasformatrice. Talché simbolo e trasformazione assumono il significato di aspetti complementari dello stesso fenomeno. Questo sembra essere il nucleo significativo del simbolo junghiano, che, in tal modo tornerebbe ad essere il sin-ballo originale. Il simbolo allora è, nel suo più profondo significato, congiunzione degli opposti.
2 – Il lavoro del simbolo
È il lavoro del simbolo a produrre il nuovo equilibrio a partire dal vecchio. Tale lavoro è reso possibile dalla tensione o differenza di potenziale, che naturalmente esiste fra coscienza e inconscio e che il simbolo rivela. Tale tensione, trasformandosi in lavoro (dialogo, immagine, danza, rito, rappresentazione), è creativa di nuovi prodotti, di sempre nuove coppie, figlie dell’incontro delle vecchie coppie coscienza/inconscio (si creano diversi orientamenti e atteggiamenti, diverse “forme” della libido, i.e. da nutritiva a genitale).
Vorrei dare al concetto di tensione un significato preciso che mutuo dalla fisica classica. Ritengo dunque opportuno illustrare con un esempio fisico i concetti di tensione o differenza di potenziale, di gradiente, di vari tipi energia, di lavoro.
Energia potenziale: capacità di compiere lavoro posseduta da una massa a causa della sua posizione.
Energia cinetica: capacità di compiere lavoro posseduta da una massa in movimento
Lavoro: in fisica, prodotto dal movimento cui è sottoposta la forza; in psicologia, trasformazione dovuta al movimento ottenuto dalla libido
Differenza di potenziale: dislivello energetico fra due punti; in psicologia tensione fra inconscio e coscienza.
Gradiente: pendenza, rapporto fra il dislivello energetico di due punti e la loro distanza

E ora uniamo la fisica alla psicologia. Supponiamo che nel contenitore A stia l’inconscio e che il suo livello energetico sia alto (il maggior battente di liquido significa maggior energia potenziale o di posizione); supponiamo anche che nel contenitore B stia invece la coscienza con un basso livello energetico. Se fra i due vasi sta un rubinetto chiuso il dislivello energetico si mantiene costante e fra i due c’è una differenza di potenziale, con una evidente pressione a monte della valvola. Se invece apro un po’ il rubinetto le due energie potenziali cambiano di valore, la più bassa cresce e la più alta aumenta, e se si prosegue col flusso, se si lascia il rubinetto aperto, arrivano fino a livellarsi, ad eguagliarsi. Anche un piccolo travaso di energia diminuisce la tensione, diminuisce la pressione contro la saracinesca del rubinetto. Se poi il fluido, scorrendo a rubinetto aperto, avesse incontrato una turbina, si sarebbe prodotto un lavoro utile anziché dissipativo. Nel caso del travaso psichico utile tale lavoro è rappresentato dalla conoscenza o consapevolezza della funzione esercitata dal colloquio, dal rito, dal simbolo metapoietico. In tal caso (lavoro utile anziché dissipato come nel caso dello scarico fisico cieco) la coscienza non solo si sente meno pressata, ma anche accresciuta di energia e informazione.
L’immagine dei vasi comunicanti illustra dunque una trasformazione energetica fisica, ma, se la coscienza le attribuisce questo significato, l’evento dei vasi comunicanti può simboleggiare, come abbiamo visto, anche un analogo evento psichico. I vasi comunicanti possono diventare allora come un emblema catalizzatore cui attribuisco la valenza simbolica di indicare il moto progressivo o regressivo della libido.
Possono darsi altri esempi di attività prodotta dalla tensione (dovuta all’alto potenziale dell’inconscio): il rito Wachandi, il Rosarium philosophorum, il Mandala, il Taj chi tu, la Transe dance, l’Immaginazione attiva, la Relazione analitica. Esempi, tutti, che qui debbo dare per conosciuti.
3 – La sede del simbolo
Come coscienza e inconscio collaborano e colloquiano sulla linea di confine rappresentata dalla turbina e lì si compie il loro lavoro comune, così anche nei riti, nelle danze, nelle immagini simboliche, nell’immaginazione attiva esiste una sede di formazione dell’attività simbolica, ossia del lavoro.
Nel rito Wachandi è nel contatto con la terra (punto di contatto lancia-buca) che si lascia scaricare il potente archetipo della madre e il desiderio.
Nel Rosarium è l’amplesso di re e regina a suggerire il trascendimento della separatezza e a costituire la sede dell’incontro.
Nel Mandala elevato a catalizzatore è nel centro che avviene l’incontro fra i due simmetrici opposti; la figura investita dall’analogia assume caratteristiche tali da suggerire una possibile unione fra i due elementi ben visibili equidistanti dal centro.
Nel Taj chi tu rotante solo il centro sarà sempre “e bianco e nero”, passando così dall’alternanza degli opposti alla loro contemporaneità. Il Mandala e il Taj chi, lo ricordiamo, sono prodotti dall’inconscio privi di semanticità finché la coscienza non attribuisce loro un significato, rendendoli operosi.
Nella Transe dance la sede della formazione del simbolo è nel corpo, ove la coscienza sospende la sua critica e l’inconscio primitivo si esprime. Alcune regole faranno sì che si tratti di lavoro utile e non d’inondazione sconvolgente.
Nell’Immaginazione attiva è nello spazio del dialogo che si attiva il confronto collaborativo.
Nella Relazione analitica è l’analista a richiamare l’attenzione della coscienza sulla sua unilateralità, come possibile causa dell’irruzione dell’inconscio e sulla necessità di dare una voce (prima la propria poi quella del paziente) all’Ombra affinché si possa esprimere in modo regolato.
In tutte queste attività simboliche si crea il novum. In tutti il segno o emblema è occasione possibile di attribuzione di valore simbolico e solo se ciò accade il segno diviene catalizzatore o induttore di attività trasformatrice con funzione trascendente ogni precedente atteggiamento. Tale attività, lo ricordiamo, è resa possibile dalla tensione che il simbolo rivela fra due opposti, come ad esempio Io e Ombra.
Si tratta di un’attività concreta, volontaria, suggerita dal modello simbolico. Inizia per esempio un dialogo fra l’Io e l’Ombra, una danza della coscienza che imita l’Ombra, una rappresentazione grafica o artistica dell’Ombra. Tutti costruiscono un nuovo atteggiamento che deriva da antinomie operanti, tanto come il vecchio rivelava antinomie laceranti.
L’operosità che il simbolo suggerisce ha caratteristiche analoghe ad alcuni tratti dell’emblema. Così l’opera suggerita dal mandala è un lavoro di centratura, di accoppiamento, di contenimento. Guardare un mandala ci costringe a considerare il nostro centro e la nostra totalità. Il mandala si rivela così un simbolo fondamentale in quanto la tendenza al centro e alla totalità (ossia del Sé) è il progetto principale dell’attività simbolica. Il simbolo metapoietico è sempre simbolo del Sé.
L’attività simbolica di mediazione è in pratica il colloquio fra analista Ombra e paziente Coscienza. L’analista propone al paziente simboli sinizetici e lo invita ad attività metapoietica, provvedendo in tal modo a mantenere la persistenza della tensione creatrice tramite un colloquio sempre rinnoventesi del paziente con la sua Ombra. La lezione del simbolo (la tensione creata dall’analista) non consente più l’unilateralità della coscienza, ma obbliga il paziente a tener conto dell’Ombra.
È certamente trasformativa tale lezione del simbolo, perché obbliga d’ora in poi a considerare e l’uno e l’altro contemporaneamente. Se sono luce nella coscienza, sono Ombra nell’inconscio. Se la mia coscienza parteggia eccessivamente per un partito politico, posso stare sicuro che nell’inconscio si sta irrobustendo il partito opposto, perché il mandala interiore resti bilanciato. Il mandala racconta le trasformazioni avvenute e suggerisce quelle future. Una trasformazione già avvenuta può essere raccontata, spiegata, descritta e compendiata da un simbolo; e viceversa un simbolo può indicare la via, il modo della trasformazione futura, esercitando in tal modo un’attività metapoietica, ossia una funzione trascendente.
4 – I simboli della libido
Trasformazione è cambiamento di atteggiamento sia di coscienza che d’inconscio a seguito del loro confronto/dialogo, o del confronto/dialogo dei loro rappresentanti/delegati sinizetici. Anche le tendenze libidiche, le intenzionalità, seguono l’atteggiamento nella sua trasformazione e sono con lui in movimento.
E viceversa la libido cambia forma e può prendere la forma di simbolo per essere creativa e trasformare. La libido dell’inconscio cambia forma, sia per produrre trasformazione, sia a seguito della trasformazione avvenuta. La libido può prendere forma di simbolo per realizzare la trasformazione cui aspira; trasforma la coscienza e trasforma se stessa.
Essendo la libido una forza (intenzione, pulsione) o un’energia potenziale (ferma), se ottiene di potersi muovere compie un lavoro. E nessun lavoro lascia le cose come prima. Ogni lavoro trascende le condizioni precedenti. La libido, in quanto simbolo metapoietico, dunque ha funzioni trascendenti in quanto svolge un lavoro che trascende lo status quo ante. Nel rito Wachandi dopo la danza della semina la psiche dei danzatori è cambiata. Dopo la contemplazione del mandala la psiche non è più la stessa. Trascendente è dunque il contrario di omeostatico e lo stesso che trasformativo.
La trasformazione è il nostro progetto. Dobbiamo di conseguenza rifiutare l’omeostasi. Il rifiuto dell’omeostasi è progetto del nuovo. L’inconscio junghiano è un inconscio progettante e i suoi elaborati di progetto sono i simboli, che altro non sono che libido convertita in immagini, in riti, in azioni che rivelano, manifestano, lasciano apparire le tendenze inconsce, archetipiche, che la libido possiede a muoversi verso l’esterno, a incontrare o invadere la coscienza.
Esiste un vero e proprio apparato psichico di conversione della libido in simboli, ossia un insieme di organi deputati alla medesima funzione trascendente, all’attività, al compito di andare al di là dello stato d’intenzione (o potenza) e di convertirlo in atto (immagine o simbolo), in dialogo fra coscienza e inconscio.
La grande quantità di libido in dotazione all’Ombra offre il dislivello energetico (rispetto alla coscienza) necessario al movimento, rendendo possibile l’intento progettuale di trasformare l’energia potenziale in cinetica; movimento, questo, che può avvenire una volta che la coscienza abbia deciso di aprirsi al colloquio, di aprire quanto basta (ma non di più) la porta di comunicazione fra i due vasi comunicanti (vedi fig. di pag.1).
Il fluire dell’Ombra dentro l’Io e lo scambio sulla linea di confine, rendono possibile il moto progressivo della libido, che concretamente è rappresentato dal colloquio intrapsichico e interpersonale, dalla danza rituale, dal contatto con la vita animale, ecc. Il colloquio, l’incontro scongiura il pericolo d’inondazione, che è possibile nel sintomo o in certi riti eccessivi e inconsapevoli come l’“umbanda” in cui è difficile controllare la sezione d’accesso.
5 – Simboli, dissipazione, sintomi
A governare creativamente quest’apertura è il simbolo. “Il simbolo tende dunque a rendere positiva una tensione che altrimenti potrebbe risultare sconvolgente” (Carotenuto, 72). Il lavoro utile della turbina è analogo al simbolo; lo sfondamento della valvola chiusa corrisponde al sintomo. Mentre il sintomo (o irruzione) è esperienza separatrice, il simbolo è esperienza trasformatrice. Una terza possibilità di scarico oltre al sintomo e al simbolo è quella di un lavoro dissipato attraverso drenaggi, sfioratori di troppo-pieno, by-pass.
Se qualcuno dice: “Nessuna problema, so contenermi” che significa “il mio Io sa contenere la libido e la destrudo che spingono per uscire”, noi possiamo pensare a tre possibili esiti: a) la porta blindata è solida e non uscirà nulla (… solo il sintomo!), b) ho drenaggi sufficienti a dissipare quanto basta (un mantra fa uscire la destrudo goccia a goccia), c) so colloquiare con la destrudo che spinge e darle ascolto, per travasarla in modo ottimale.
Nel paziente tipicamente è presente il sintomo e non il simbolo. Il dialogo intrapsichico nel paziente è assente; per questo è affetto dal sintomo. In caso di sintomo della destrudo, anche la saggezza popolare ha capito il meccanismo; nelle nostre campagne si afferma di una persona posseduta dal sintomo (che può essere tanto un’esplosione di rabbia come un’esplosione di pus da un foruncolo): “è scoppiato il bubbone; è la cattiveria che viene fuori!”.
6 – Il lavoro simbolico nella terapia dell’Ombra
Come promuovere l’attività simbolica in chi ci sta di fronte ed evitare così sintomo e dissipazione? Attraverso il lavoro simbolico personale dell’analista che si suppone, al contrario del paziente, dotato di una valvola e una turbina aperte al suo lavoro/dialogo intrapsichico.
L’analista può svolgere due compiti:
- svolgere la propria attività integratrice (silenziosa?) di fronte al paziente in modo che questo impari a farlo a sua volta
- offrire il proprio inconscio e la propria coscienza come canali di transito (by-pass) dell’energia del paziente dall’inconscio del paziente alla coscienza del paziente.
Per Jung la modalità b) rappresenta l’esperienza e il lavoro del transfert. Il paziente trasferisce sull’analista la sua Ombra perché non può farla pervenire alla propria coscienza attraverso l’apertura simbolica e il dialogo. Ma in tal modo, senza saperlo, trova il by-pass verso la propria coscienza.

I numeri 1, 2, 3, 4 sovrapposti alle figure, e le sigle On (ennesima posizione dell’Ombra) poste dentro le figure, indicano le successive collocazioni dell’Ombra del paziente. Le successive condizioni dialettiche sono:
O1 = indifferenziazione
O2 e O3 = differenziazione non integrata
O4 = integrazione nella distinzione
L’Ombra del paziente non viene accettata (vedi barriera nera) dalla coscienza del paziente. L’Ombra corre quindi il frequente rischio di essere proiettata sull’altro. Quando questo avviene in analisi, l’effetto può essere benefico se l’analista si accorge della proiezione su di lui e non permette l’identificazione proiettiva, ossia non s’identifica con il proietto.
La freccia (azzurra) interpersonale, da inconscio a inconscio, rappresenta la proiezione. La freccia (rossa) interpersonale da coscienza a coscienza (da 3 a 4) rappresenta l’alleanza terapeutica. È l’analista dunque che si fa carico del transito dell’Ombra del paziente fino alla coscienza del paziente, offrendo la propria psiche (pervia) all’attraversamento e l’integrazione (freccia gialla grande) intrapsichica; integrazione che avviene dentro l’analista anziché dentro il paziente.
Il paziente non accetta le parole della sua Ombra per voce del proprio inconscio, ma le accetta per voce dell’analista, se sussiste l’alleanza terapeutica (comunicazione coscienza-coscienza). Con questo si riduce progressivamente la chiusura della barriera che aveva bloccato la voce dell’Ombra.
In un certo senso questo viaggio dell’Ombra fuori di sé è come il viaggio d’andata e ritorno dell’eroe mitico e fiabesco, un viaggio che si può realizzare solo con l’aiuto di un vecchio saggio, l’analista, che permette il transito dell’eroe nei suoi territori.
7 – La dialettica dell’Anima
Anche la dialettica analitica dell’Anima/us avviene in questo modo rettangolare in cui un complesso, non potendo percorrere il lato interno impedito, deve percorrere tre lati esterni.
Nella dialettica dell’Anima/us Jung vede l’essenza alchemica del transfert.

Anche per integrare l’Anima/us dovrebbero avvenire il colloquio e la simbolizzazione, ma a causa di questa incapacità l’eccesso energetico dell’inconscio deve prendere altre vie: possessione-irruzione, proiezione, dissipazione.
In analisi il timore dell’inconscio cesserà in quanto, attraverso il percorso a tre segmenti, potrà venir mostrato alla coscienza del paziente una faccia accettabile dell’inconscio (sia dell’Ombra che dell’Anima/us), per cui in futuro potrà lui stesso accettare il dialogo interno con i propri contenuti senza passare attraverso l’analista.
Anima-Animus è un complesso autonomo inizialmente indifferenziato; poiché solo la condizione d’integrazione è sana e poiché non si può integrare un oggetto se non è differenziato, il complesso Anima/us va prima differenziato poi integrato.
Quindi Anima/us ha un percorso complesso, dalla sua infanzia alla sua maturità, in cui si troverà successivamente in tre condizioni differenti ed assumerà caratteristiche e funzioni molto diverse a seconda dello stato in cui verrà a trovarsi. È per questo che possiamo trovare per l’Anima molte definizioni differenti nei testi junghiani. Possiamo trovarla indicata come conscia o come inconscia, come interna o come esterna, come struttura d’interfaccia o come funzione e atteggiamento. Questo non deve scoraggiarci. Sono tutte indicazioni corrette, ma che si riferiscono a momenti successivi e condizioni diverse. Vediamo di chiarire allora la sua possibile vicenda e le strade che essa può imboccare. Ricordiamo preventivamente che Anima/us è una figura di sesso opposto a quello dell’Io, mentre Ombra e Persona sono dello stesso sesso.
1) Se il complesso Anima/us è indifferenziato (posizione tetica), possono accadere due cose:
- Poiché Anima/us è suscettibile di proiezione e innamoramento cieco, se l’Anima-Animus è proiettata, e ciò avviene sempre su un altro individuo di sesso opposto, allora l’Io si identifica spesso con la propria Persona (maschera) dello stesso sesso che è rimasta in sé e si ha innamoramento eterosessuale di Anima/us. In realtà ci s’innamora della propria Anima/us
- Se invece Anima/us non è proiettata, l’Io può identificarsi con l’Anima; in tal caso è invece spesso la Persona (maschera) che è proiettata, ma questa volta su un altro individuo dello stesso sesso, l’Io si identifica con l’Anima-Animus controsessuale e s’innamora della Persona; questo può spiegare qualche caso di omosessualità
2) Se Anima-us è differenziato ma non integrato (posizione antitetica) coscienza e inconscio sono separati e allora la coscienza può essere troppo unilaterale e rischiare di esser posseduta da irruzioni dell’inconscio
3) Se Anima/us è integrata alla coscienza (posizione sintetica), diventa conscia e interna; si accorda con l’Io per svolgere una funzione d’intertaccia col mondo interno e si colloca alla frontiera con l’inconscio
Riassumendo, se Anima/us è inconscia la posizione può essere tetica (ossia indifferenziata) o antitetica (ossia differenziata ma non integrata), mentre se è conscia può esser solo sintetica ossia integrata.
1) Se è Tetica-indifferenziata-inconscia si può avere Proiezione dell’Anima/us o Identificazione con l’Anima/us.
2) Se la posizione è Antitetica-differenziata-inconscia-non-integrata si può avere Possessione sull’Io da parte dell’Anima a causa dell’Unilateralità della coscienza
3) Se Anima/us è invece conscia (posizione sintetica-integrata), Anima/us può avere un Rapporto effettivo con l’Io (atteggiamento/funzione) e Costituzione dell’Anima/us come soglia/interfaccia fra coscienza e inconscio
Facciamo un esempio di come si snoda in analisi questa dialettica dell’Anima/us che attraversa la psiche dell’analista. Prendiamo il caso di una paziente donna e un analista uomo.
La donna parla al suo inconscio attraverso una struttura che, in assenza di rimozione e in condizione d’integrazione, sta ai confini fra coscienza e inconscio: una struttura dalle caratteristiche maschili che Jung chiamò Animus. L’uomo invece usa per questo scopo una figura chiamata Anima. Perché il colloquio sia possibile Anima e Animus devono però essere accessibili alla coscienza ossia integrate. Dobbiamo supporre che nell’analista questa accessibilità si sia realizzata. Nella paziente invece raramente l’Animus è, all’inizio dell’analisi, accessibile alla sua coscienza. Nella paziente il confronto con l’inconscio dunque non può avvenire. La rimozione lo impedisce. Al suo Animus, rimosso, è impedita, dalla barriera della rimozione, la risalita alla coscienza.
8 – La psicologia del transfert
Il Rosarium alchemico suggerisce però a Jung una sorta di by-pass (vedi disegno seguente), che aggiri la barriera orizzontale; Jung lo descrive in tutte le sue tre fasi: a) regressione e rapporto arcaico (o rapporto sessuale inconscio e simbolico), b) confronto con l’inconscio nella persona dell’analista (che presta alla paziente la sua psiche), c) alleanza terapeutica (ossia relazione conscia). Si è costretti a percorrere ben tre vie (anziché una sola) perché l’integrazione diretta dell’Animus è impossibile a causa della resistenza.
Come abbiamo visto la proiezione di Animus può comportare un innamoramento eterosessuale. Il rapporto sessuale avviene simbolicamente fra Anima dell’analista (se l’analista agisse un’analoga proiezione) o la Persona (o l’Io) della paziente e l’Animus della paziente. Fra i due accade questo: prima a livello inconscio la coniunctio regressiva, arcaica, della paziente con se stessa riguardo alla quale la coscienza è onnubilata; poi a livello conscio l’alleanza terapeutica fra l’Io femminile della paziente e l’Io maschile dell’analista.
Quanto appena detto lo si è cercato d’illustrare con la figura seguente.

Dopo l’atto simbolico, l’Animus della donna, fuso con l’analista inconscio (Anima), può raggiungere l’Io conscio dell’analista dato che in lui i canali di risalita sono pervi. Dopo di che il recupero conoscitivo dell’Animus avviene a livello di alleanza terapeutica.
Ma perché dopo la proiezione è necessario che avvenga una coniunctio transferale visto che l’Animus è già “dentro” l’analista e potrebbe risalire? Perché l’Io dell’analista è in contatto solo con la propria Anima e solo se l’Animus è fuso con questa può accedere all’Io dell’analista. Come si avvede infatti, l’Io dell’analista, della proiezione d’Animus se non constatando un amore che non è diretto evidentemente a lui?
§
Jung 4. La riconciliazione
… fra coscienza e inconscio, ovvero dell’incesto
(di Luciano Rossi)
.
L’alchimia.
Dapprima Jung aveva conosciuto solo il livello personale familiare e biologico, della libido sessuale che dell’Edipo, che Freud gli aveva indicato. Freud aveva lavorato prevalentemente con isterici e ossessivi che gli avevano mostrato solo questo livello. Jung invece aveva lavorato con schizofrenici, e questa manifestazione psichica svela un livello più profondo della mente rispetto all’isteria. Questi, per mancanza di contorni, sono dispersi in frammenti che funzionano come vere e proprie personalità autonome, non coordinate da un governo centrale. Esse vengono avvertite come voci. Queste voci raccontano di cose mitiche e divine. A differenza degli schizofrenici Jung aveva un Io forte, però aveva la stessa capacità di scorgere in sé le stesse voci, gli stessi miti, lo stesso livello divino, senza esserne travolto. L’ampiezza di questo livello mitico gli fa sentire stretto il livello sessuale, orgasmico, biologico e personale, limitato alla propria e sola zona genitale. Gli fa sentire che la libido è più estesa e che non si esaurisce nella sola sessualità personale. Gli fa sentire che l’Edipo non è solo banalmente personale. Gli schizofrenici e il suo stesso inconscio gli mostrano che la libido è tutta l’energia psichica e che l’incesto ha anche un livello mitico, simbolico e divino. Questo livello più ampio va cercato nell’inconscio collettivo, ponendoci come coscienza a confronto con le sue immagini. Le immagini che incontro in questa ricerca vanno poi integrate con gli opposti che stanno nella coscienza come insegna l’alchimia. L’alchimia procedeva per tre fasi e due movimenti:
materia prima unita > solve > elementi opposti separati > coagula > elementi di nuovo riuniti.
Jung chiama analisi il solvere e sintesi il coagulare.
Psiche unita e confusa > analisi > singoli elementi della coscienza e dell’inconscio a due a due opposti fra loro > sintesi > personalità unita e distinta
La forza che permetteva la sintesi o il coagulare, e che univa per affinità gli elementi opposti, per gli alchimisti era un elemento sessuale o nozze chimiche o nozze sacre. La sessualità, per gli alchimisti e per Jung, è potente, sacra, mistica, non un mero orgasmo personale e banale. Le nozze a loro sembravano il più chiaro e forte esempio di come due opposti, femminile e maschile, desiderino invincibilmente unirsi e di come l’unione di opposti dia nel figlio la sintesi più potente e perfetta. Alchimia non è un processo chimico concreto di trasformazione materiale di piombo in oro, ma una sapiente metafora, la descrizione simbolica di un processo psichico interno. Parla del perfezionamento della materia, ma intende il perfezionamento dell’uomo. Un processo psichico che sfuggì del tutto al chimico del seicento, il quale davvero sperò di potere ottenere nella materia esterna quel miglioramento che in realtà egli desiderava per se stesso. Oggi sappiamo che i forni e gli alambicchi dell’alchimista altro non dovevano essere, e oggi altro non sono, che la sua parola e sue mani di luce rivolte all’altro da sé per ottenere la sua trasformazione. La materia prima lavorata altro non è che la nostra persona grezza, l’uomo nella sua notte, da portare verso la luce. Alchimia è il percorso dell’Eroe alla ricerca del tesoro nascosto, del sé, della pietra filosofale.
Il luogo della mediazione.
In quella che appare, per una visione statica, un’opposizione irriducibile, per una visione dialettica si dà, come possibilità latente non ancora percepita, un terzo polo disponibile per possibili operazioni di mediazione. Fra i due opposti c’è dapprima separatezza, per divieto di contatto diretto con l’oggetto, a causa della pericolosità dell’altro da sé. Ma poi si scopre che si può sostituire quest’ultimo con il simbolo. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L’unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell’oggetto) è concessa. In terapia il simbolo è impersonato dall’analista. Analista che è analogo al padre, analogo alla madre. È l’analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di accessibile, lecito, accettabile.
Il terzo simbolico.
“… il contrasto totale non conosce un terzo termine – Tertium non datur! La scienza si arresta ai confini della logica; non così la natura, che fiorisce anche lì dove nessuna teoria è ancora mai penetrata. La venerabilis natura non s’arresta davanti al contrasto, ma se ne serve per formare, dagli elementi avversi, un nuovo essere”. (Jung, 1946, La psicologia del transfert, Il Saggiatore, 1974, pag. 189). Questo nuovo essere è l’essere che ha raggiunto la propria individuazione. Senza individuazione, la coscienza rischia d’essere inghiottita da un lato nel conscio collettivo (sociale o culturale), dall’altro nell’inconscio impersonale, il collettivo naturale. Attraverso l’individuazione, la coscienza diventa invece capace di un incontro con entrambi, in modo personale, singolare, individuato. Lo fa assumendosi il peso del proprio essere individuale, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e dalle attese, tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società. Per diventarne capaci occorre sperimentarsi nel conflitto e diventare consapevoli della propria capacità di confronto con l’altro.
La congiunzione degli opposti.
Come mai il padre e la madre ad un certo punto non sono più oggetti semplici e concreti, ma diventano, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili? La qualità sconosciuta e inquietante, che rende temibili padre e madre, è la libido del figlio, che fa di oggetti innocui, quali sono il padre e la madre anagrafici, delle “imago” archetipiche. Ora queste imago, inavvicinabili a causa del divieto, devono essere trasformate in un simbolo accessibile. Chi lo farà? Sarà la capacità riflessiva del figlio che trasporta la libido dall’oggetto al simbolo e poi s’interesserà solo di quest’ultimo. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto trasformato (da cui l’enfasi sulla Wandlung) e divenuto “simbolo della libido” (Symbole der Libido). Dei due opposti uno solo compie l’opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo della trasformazione, Symbole der Wandlung, (l’oggetto-analista). La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché “risolta” dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto. Risolta perché l’unione fra i due ora può avvenire. Si opera così la sintesi di soggetto e oggetto: ne risulta il Sé, il figlio della coppia bambino-genitore, colui che è completo. La madre diventa il femminile interno al figlio con cui il maschile del figlio può congiungersi.
Le nozze alchemiche del Rosarium philosophorum.
Tale coniunctio appare una costante nelle formulazioni alchemiche. In un testo del ‘600, il Rosarium philosophorum, si racconta dell’unione del Re e della Regina e della loro rinascita come essere unico ma doppio, ermafrodito: il Rebis, o res bina. La vicenda alchemica mostra il re e la regina che si sposano, si spogliano, si immergono nell’acqua, si uniscono in un amplesso, diventano un corpo solo, muoiono, putrefanno, vengono abbandonati dall’anima, vengono aspersi di rugiada, vengono rivisitati dall’anima, rinascono. Jung utilizza tali vicende per rappresentare il transfert analitico. Il matrimonio incestuoso fra analista e paziente, il viaggio notturno per mare, l’unione di anima e animus, lo stallo, la perdita di direzione, l’interpretazione dolorosa come luce e purificazione, l’integrazione degli opposti, l’ombra materna dell’alchimia che compensa la luce paterna del cristianesimo, il Rebis che è luce e tenebre insieme. Analista e paziente rinascono insieme trasformati. Sogno: Un frate sbocconcella animalescamente un tozzo di pane. È sporco; ha briciole sparse per tutto il viso. Cammina per i corridoi del convento. Passa accanto ai quadretti con le immagini alchemiche del Rosarium. Il posto della tavola numero cinque (coniunctio sive coitum) è vuoto, il quadro è tolto ; sul muro sporco è visibile l’impronta sbiancata del quadro mancante . Il frate si volge verso il sognatore tutto agitato, con la bocca piena di pane ed indica a gesti il furto del coitum. Interpretazione del sogno: Il ritiro della libido genitale è stato sostituito regressivamente da una funzione nutritiva (orale). Il frate segnala i guasti del ritiro della sua libido. “Ecco perché mangio con voracità”, sembra dire; e indica col dito la causa: la mancanza del coitum. Non ha più voce né capacità riflessive per la mancanza di genitalità. Il sogno segnala i guasti che derivano dalla unilateralità di un solo opposto. Occorre rimettere a posto il tassello mancante e vivere appieno la figura delle nozze sacre.
L’alchimia del transfert.
La donna parla al suo inconscio attraverso una struttura che sta ai confini fra coscienza e inconscio: una struttura dalle caratteristiche maschili che Jung chiamò Animus. L’uomo invece usa per questo scopo una figura chiamata Anima. Se vogliamo che il colloquio con l’inconscio avvenga, Anima e Animus devono essere accessibili alla coscienza. Dobbiamo supporre che nell’analista questa accessibilità si sia già realizzata. Nella paziente invece raramente l’Animus è accessibile. In tal caso nella paziente il confronto con l’inconscio non può avvenire. La rimozione lo impedisce. Al suo Animus, rimosso, è impedita, dalla barriera della rimozione, la risalita alla coscienza. Il Rosarium alchemico suggerisce però un by-pass, che aggiri la barriera; Jung lo descrive in tutte le sue tre fasi: regressione e rapporto arcaico (o rapporto sessuale inconscio), confronto con l’inconscio nella persona dell’analista (che presta alla paziente la sua psiche), alleanza terapeutica (ossia relazione conscia). Si è costretti a percorrere ben tre vie perché la integrazione diretta dell’animus è impossibile a causa della resistenza. Il percorso diretto dall’Animus della paziente all’Io della paziente è impedito da una chiusura. La paziente potrà lasciar risalire il suo Animus solo attraverso il transfert con l’analista: ossia attraverso la fusione inconscia con la sua anima, la risalita lui fino alla coscienza dell’analista veicolata dal confronto attivo in lui per l’assenza di rimozione, infine il ritiro delle proiezioni dovuto all’alleanza terapeutica.

Il rapporto “sessuale” avviene fra Anima e Animus. In questo caso (di analista uomo e paziente donna) è l’anima (il femminile dell’analista) che viene sedotta, mentre è il maschile della donna (animus) che agisce l’approccio, in quanto la paziente è maschile nell’inconscio quanto è femminile nella coscienza. Mentre accade la coniunctio regressiva, arcaica, inconscia, riguardo alla quale le coscienze sono onnubilate, a livello conscio accade l’alleanza terapeutica fra il femminile della paziente e il maschile dell’analista. Ma dopo l’atto, l’animus della donna, fuso con l’analista inconscio, può fondersi con l’io conscio dell’analista dato che in lui i canali di risalita sono pervi. Dopo di che il recupero conoscitivo di Animus avviene a livello di alleanza terapeutica.
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Gli epigoni: Mario Trevi
di Luciano Rossi
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Disiecta membra
“Io ho scritto solo frammenti ineguali (disiecta membra) che mi riuscì di comporre in modo inadeguato… [poiché] non vi era tempo né possibilità alcuna di lasciar maturare i miei pensieri”. (Jung)
“Il lettore benevolo cerchi di comprendermi, se nel seguire il filo intellettuale troverà qui e là qualche frattura… “. (Jung)
Premessa
Freud e Jung non andarono d’accordo, dopo essersi separati, anche sulle idee dell’altro che, prima della separazione, essi avevano giudicato accettabili e in parte compatibili con le proprie posizioni. Dunque si deve pensare piuttosto ad un dissidio caratteriale, a risentimenti, ecc. che potevano sussistere fra i due.
Poco dunque, di tutta questa ostilità, ha dunque ragione di sussistere fra i loro epigoni. Eppure quasi mai nella psicoanalisi freudiana contemporanea si fa riferimento alle dottrine junghiane o postjunghiane anche da parte di chi, freudiano, ha raggiunto oggi, autonomamente, posizioni vicine a quelle di Jung. Una delle ragioni è questa: mentre il freudismo è notevolmente cresciuto proprio per aver preso nozione dei limiti delle formulazioni di Freud e preso le distanze da esso, in campo junghiano non è accaduto nulla di simile. Non è nemmeno cominciato quel processo di necessario distanziamento dal ceppo originario che tanti e tanto vari frutti ha generato tra i freudiani. Questo ha lasciato lo junghismo in un relativo isolamento per mancanza di partecipazione ai dibattiti, di studi comparativi, e via dicendo.
Proprio a partire dunque da riflessioni critiche su Jung, che rinuncino ad alcune parti per privilegiarne alcune altre, possono decollare sviluppi fecondi e liberi di crescere, per aver eliminato l’impossibilità e la stagnazione che nascevano dalla necessità di dover accettare tutto. Nel dopo Jung sono le contraddizioni ad essere le più paralizzanti per l’epigono sensibile alla metodologia e all’epistemologia; contraddizioni che non turbavano minimamente Jung che pareva non avere esigenze di questo tipo.
Mi è difficile scrivere la prima frase di questo articolo; molte affermazioni contrastanti di Jung e degli epigoni credono di descrivere il problema più importante dello junghismo. Sempre ammesso che uno junghismo ci sia, così come invece ci sono, chiari, un freudismo e un adlerismo. Nel 1913 c’è, già formata, una teoria adleriana completa, che non sarà sostanzialmente più modificata. Nel 1913 poi si erano succedute già due teorie freudiane: il Progetto di una psicologia del 1895, ormai abbandonato, e un’avanzata Metapsicologia, che raggiungerà il suo culmine nel 1915. Nel 1913 invece non esiste nulla che possa apparire una teoria junghiana: c’è solo un tentativo di Jung di affermare che le uniche due teorie allora presenti (freudiana e adleriana) andavano bene tutte due in casi diversi e le loro differenze erano dovute al diverso tipo psicologico degli autori. È, questa, la prima di una lunga serie d’affermazioni junghiane che daranno vita ad un aggregato caotico di brillanti affermazioni, aggregato che non diventerà però mai una struttura.
Nella critica alla psicologia junghiana non esiste una notazione che possiamo definire come la più importante. Disponiamo solo di un’ampia serie di critiche fra cui, per fortuna, esiste una sorta di circolarità che ci permette di cominciare da un punto qualsiasi. Ciascuna di esse rappresenta un cluster omogeneo. Questi clusters sono interrelati fra loro per consequenzialità o per contraddizione. Ogni cluster è come un modello, una diversa teoria discendente dallo stesso autore. C’è ovviamente un forte disagio negli epigoni junghiani per la grande incertezza che questo fatto crea.
Molti epigoni soffrono poi per altri fatti. N’elenco alcuni sulla scorta di Mario Trevi.
a) C’è il grande distacco dello junghismo dalle altre scuole e dalla ricerca empirica.
b) C’è una totale assenza di crescita della disciplina.
c) C’è all’interno dello junghismo l’assenza di critica e di gemmazioni rizomatiche.
d) C’è l’assenza di indicazioni sulla tecnica terapeutica.
e) Non esiste un dopo Jung, così come esiste un dopo Freud.
Siamo costretti, come dicevamo, a cominciare la trattazione da un punto qualunque. Sceglieremo di partire dai difetti del corpus dottrinale junghiano, con la speranza che questa scelta sia una strada buona per costruire criticamente qualcosa di coerente, anche a costo di scartare molte cose che altri trovano importanti.
Precipiteremo comunque nelle ripetizioni e nella confusione, come sempre accade a coloro che si sforzano di seguire Jung, sia pure per criticarlo. Il risultato di questo nostro lavoro sarà a sua volta caotico. Jung sembra attirare nel suo campo gravitazionale confusivo anche ogni tentativo critico che cerchi di coglierlo nella sua interezza e di sistemarlo. Per sfuggire a questo caos, in ogni tentativo di sistemazione o di applicazione pratica, si dovranno di necessità scegliere solo alcuni elementi e scartare gli altri. Ma tale scelta è naturalmente arbitraria. Ogni terapeuta ha buon diritto di farla a modo suo e non deve esitare a farla, pena l’incertezza più profonda.
- I disagi di chi aderisce allo junghismo.
L’adesione alla totalità delle intuizioni junghiane comporta una serie di disagi così descrivibili:
a – esistono contraddizioni e incoerenze, interne agli scritti di Jung, inaccettabili se lo junghismo lo volessimo pensare come un sistema teorico unitario
b – si nota l’ontologizzazione di un linguaggio che, in verità, non può essere che metaforico e che fu inizialmente da Jung ritenuto tale
c – si constata l’assenza di qualsiasi volontà o capacità di scambio culturale fecondatore da parte delle scuole junghiane con le successive scoperte di discipline affini e di altre scuole psicodinamiche
d – esiste un indubbio divorzio nei confronti delle osservazioni empiriche fornite da altre correnti psicologiche
e – manca un qualsivoglia ripensamento critico dei fondamenti dottrinali e sistematici
f – vi è, in molti terapeuti che si ispirano a Jung, un ricorso troppo facile e frequente a tecniche terapeutiche suggestive, parapsicologiche, astrologiche, incontrollabili
g – vi è, nell’opera junghiana, una generale sciattezza linguistica e quindi teoretica
- I princìpi
Aderire a Jung significa accettare, sia pure in modo sorvegliato e critico, almeno buona parte dei principi seguenti:
a – il principio d’individuazione
b – il principio del relativismo delle prospettive: è valida ogni prospettiva coerente ma la sua validità è limitata a ciò che si vede da quel punto
c – il principio olistico: ogni approccio parziale è insufficiente; la vita psichica va colta nella sua complessità; la psicologia analitica potrebbe più propriamente esser chiamata psicologia complessa
d – il principio dialogico: ogni approccio si apre ad ogni altro approccio possibile, l’analista al paziente
e – principio della formazione dei complessi: le rappresentazioni tendono a riunirsi in una rete di legami associativi e ad essere accompagnate da un affetto
f – il principio dell’autonomia dei complessi: ogni complesso è dotato di autonomia ed agisce come una personalità parziale o una subpersonalità
g – il principio della centralità dell’io: l’Io è un complesso che sta al centro della coscienza ed è la sede della consapevolezza e della volontà Esso tende a imporre il suo controllo agli altri complessi. La cura dunque non consiste nel superare i complessi, ma nell’insegnare all’Io a dialogare con le subpersonalità separate
- Psicologia analitica o psicologia complessa?
La psicologia junghiana dovrebbe più propriamente chiamarsi psicologia complessa come Toni Wolff suggerì a Jung e come Trevi sembra accettare. Dice del resto Jung nel 1929: “Intendo dar vita ad una psicologia analitica generale che comprenda psicoanalisi freudiana e psicologia individuale adleriana e altre tendenze della psicologia complessa“. Intende perciò comprendere al suo interno, secondo il punto di vista olistico e dialogico, sia Freud che Adler come due opposti, due punti estremi di un arco che contiene tutte le psicologie dell’inconscio. Jung propone dunque di una teoria capace di integrare i complessi che si attivano nel settore della sessualità (campo di Freud) e quelli che si organizzano nel campo del potere (Adler). Entrambi i pensatori isolano famiglie di complessi e le innalzano a principio esplicativo di tutta la psiche. È come se ogni autore avesse un daimon che lo porta a vedere la vita da una prospettiva o dall’altra. Jung nel 1913 espose una teoria dei Tipi psicologici com’espediente interpretativo delle differenze insorte fra Adler e Freud. Vi si annunciava la legittimità sia della interpretazione della vita psichica proposta da Freud che di quella proposta da Adler. La differenza fra loro dipendeva unicamente, secondo il Jung del 1913, dal fatto che Freud e Adler erano due tipi psicologici diversi. Entrambe le dottrine erano interpretazioni legittime purché riconoscessero i limiti della loro visione, che poteva essere solo soggettiva e parziale. In ogni formulazione di un pensatore entra inevitabilmente la vita psichica dell’interprete. Freud ed Adler non ci hanno dato perciò due psicologie complesse. Come fa allora quella junghiana ad esserla, se anche Jung appartiene ad un tipo psicologico? Anch’essa risente dell’interprete. Jung riconosce nel 1921 che anche la più comprensiva teoria dei tipi è a sua volta condizionata dalle scelte soggettive di chi la formula. Sappiamo però che Jung, nel 1913, si augurava ancora che la psicologia del profondo potesse raggiungere quel punto di vista superiore entro cui le visioni parziali, dovute all’atteggiamento o tipo psicologico, fossero comprese.
- Che cos’è la psicologia complessa?
La psicologia complessa si è proposta via via, nei vari scritti, come:
a – una psicologia dell’individuazione
b – una psicologia dell’interazione dialogica che considera il dialogo è lo strumento elettivo del costituirsi dell’individuo e che si sforza di cogliere l’uomo nella sua fondamentale apertura all’altro
c – una psicologia della coniunctio oppositorum che assume il conflitto come principio della vita psichica ma lo compone in una sintesi che non abolendo affatto l’opposizione, la trasforma da invincibile esclusione (o … o) a compresenza (e … e) creativa degli opposti.
d – una psicologia del simbolo, che individua nel simbolo l’operatore concreto della sintesi
e – una psicologia fasica: ogni età della vita presenta problemi specifici
f – una psicologia della vita immaginale: le immagini hanno valore funzionale e organico
g – una psicologia dell’inconscio creativo: l’inconscio è capace di produrre creazioni immaginali, narrative, artistiche, religiose
h – una psicologia della metafora: i modelli e gli schemi hanno natura prevalentemente metaforica.
i – una psicologia libera e aperta: i modelli sono inevitabili ma non devono essere rigidi e chiusi, bensì sviluppabili e sostituibili
l – una psicologia pragmatica: i modelli vanno impiegati o rigettati a seconda della loro utilità
m – una psicologia dialettica, intesa sia nel senso platonico o socratico di dialogica, sia nel senso hegeliano di tesi, antitesi e sintesi.
- È possibile un sistema junghiano?
Certamente Jung non ce lo ha consegnato. E nessun epigono, all’infuori forse del solo Samuel, ha tentato, da solo, una sistematizzazione dell’intera materia junghiana. Sia Aversa che Carotenuto propongono infatti sistemazioni a più mani; ma in queste ultime i singoli capitoli settoriali sono altrettante teorie o visioni o modelli autonomi, sistemati da soggetti diversi, e incompatibili con quelle scritte da altri ed esposte nello stesso manuale. Una materia estremamente in divenire dunque? O un lavoro impossibile, come ci avverte a volte Jung? O un lavoro inutile, dato che lo stesso Freud, così sistematico, ha cambiato idea per tutta la vita?
- I campi gravitazionali
Un creatore di teorie attira un certo numero di seguaci nel suo campo gravitazionale e ve li trattiene, impedendo loro di valutare attentamente i contributi provenienti da campi opposti. Jung non subì però il campo gravitazionale di Freud; ritenne per esempio che la teoria di Adler avesse degli elementi di indubbia verità, e che questi fossero in netto contrasto con la psicoanalisi, ma che questo fatto non negasse la verità e la sopravvivenza di quest’ultima né di quella di Adler. Dunque teorie contrastanti possono coesistere. La contraddizione può avere un nuovo destino: eracliteo, dialettico, hegeliano. La via junghiana poteva diventare la congiunzione degli opposti freudiani e adleriani.
- Sviluppi rizomatici e sviluppi dentritici
Se una nuova pianta deriva dal rizoma di un’altra può separarsi dall’altra con un taglio del rizoma e continuare a vivere indipendente. Una ramo (dendron) invece non può essere separato dalla pianta madre e la sua vitalità è condizionata dalla continuità del rapporto con essa. Jung e Adler sono per esempio sviluppi rizomatici di Freud, mentre M. Klein, Hartman, Lacan sono sviluppi dendritici; Kohut, infine, uno sviluppo dendritico divenuto poi rizomatico, un ramo trapiantato nel terreno ed attecchito.
Quando Adler si stacca da Freud (1911) la sua teoria è già completa, chiara e articolata e il suo tono già privo di polemiche, come se fosse una questione definita da tempo. Jung assiste al distacco di Adler, cerca di comprenderlo e intravede per sé una via ancora diversa. Ma ci metterà molto tempo a trovare la sua strada.
- Il dopo Jung
Ogni autore postjunghiano sembra avere la sua idea di junghismo. Esistono correnti come la corrente di Hillmann che è oggettivante e archetipica; c’è poi la corrente cui aderisce Trevi che è soggettivante e dialogica; la corrente Montefoschi che è soggettivante ed hegeliana; c’è poi una corrente evolutiva che fa capo a Neumann; esiste infine una corrente ortodossa che fa capo alla Von Franz che pretende di prendere tutto quello che ha scritto Jung senza scartare niente.
Ma nessuno di questi può essere visto come uno sviluppo rizomatico e dentritico: non ci nel dopo Jung sono sviluppi rizomatici o dendritici come nel caso del dopo Freud. Caratteristica del dopo Jung poi è anche l’assenza di poderose e soddisfacenti esposizioni comprensive del suo pensiero paragonabili ai lavori di un Fenichel o di un Rapaport. Le ragioni possono essere ripetute: asistematicità, stile letterario disordinato e sciatto, errori non segnalati, alternanza d’inclusione, opposizione e complementarità in rapporto al freudismo, contraddizioni, oscurità, caoticità delle Gesammelte Werke.
In queste condizioni non si può nemmeno scegliere se essere pro o contro i singoli voltafaccia di Jung. Quando invece Freud cambiò macroscopicamente rotta, nel 1920, rispetto alla metapsicologia del 1915, si trattò di una scelta chiara rispetto a cui, per esempio, Jones e Fenichel pronunciarono un “no” chiaro. Nasceva nel 1920 un’altra teoria freudiana completa, non un ‘intuizione folgorante e peregrina che non si sapeva dove sistemare.
- La sintesi di Samuels
Samuels individua nel dopo Jung tre scuole e due metodi.
A) La scuola classica fondamentalista di Zurigo (von Franz) che intende conservare vivo nella sua globalità, e nelle sue discontinuità, contraddizioni e lacune tutto il pensiero espresso dalle GW.
B) La scuola evolutiva rappresentata da Neumann, da Fordham e dagli “inglesi”, aspira ad un rigoroso empirismo anglosassone e a conciliare lo junghismo col modello evolutivo infantile di Freud.
C) La scuola archetipica di Hillmann si oppone all’empirismo e pone l’accento sulla vita immaginale profonda. L’immagine ha un’evidente radice archetipica.
D) Il metodo dialettico interazionale o dialogico che appare come un metodo empirico-induttivo
E) Il metodo classico-simbolico-sintetico che sembra essere ipotetico-deduttivo appartenente alla famiglia delle grandi teorizzazioni non empiricamente fondate. Si ricorda a questo proposito il suggerimento popperiano di un metodo ipotetico-deduttivo-induttivo.
- La proposta di Trevi: una quarta via.
Cerchiamo di essere pratici e facciamoci una domanda importante: “In definitiva, nella prassi terapeutica quotidiana, che cosa impieghiamo veramente degli strumenti suggeriti da Jung?”. In realtà sappiamo già la risposta: molti junghiani non fanno alcun uso, nella loro pratica, del disorganico impianto ereditato da Jung; o ne fanno un uso metaforico qua e là. Essere junghiani, oggi, non significa solo a) seguire tutto Jung come fanno i classici di Zurigo, o b) inserire nel suo fragile e lacunoso impianto teorico la problematica evolutiva come fa Neumann, o c) cercare nella mitologia un impianto sovrastorico come fa Hillmann. Significa anche d) cogliere gli stimoli problematicisti, criticisti, relativisti, ermeneutici, ecclettici, lasciando da parte lo Jung dogmatico, assertore di una psiche oggettiva, di una psicologia perennis, rivelata, immutabile. Tali stimoli problematici devono costituirsi come invito all’apertura, all’utilità pratica, diversa di volta in volta, all’efficacia terapeutica. È la quarta via, più conscia dell’epistemologia, più aperta al relativismo antropologico, più capace d’accettare il conflitto delle interpretazioni.
- La via criticista-epistemologica-ermeneutica
Trevi e Innamorati individuano sei principi, caratterizzanti questa quarta via.
- Nessuna teoria psicologica può pretendere di erigersi al di sopra della storia.
- Ogni teoria ingloba l’equazione personale dell’autore. I punti a) e b) ce li ritroviamo nel punto f). Va sistemata meglio anche la quarta via. In una teoria non si possono accettare né ripetizioni né lacune.
- Ogni teoria è solo un punto di vista, una prospettiva che coglie la psiche in una relativa interezza. Riconosce tuttavia che da altri punti di vista si possano cogliere altre prospettive, anche loro capaci di interezza. Ognuna di queste fornisce una descrizione completa della vita psichica vista da quel punto. Ogni interpretazione è relativa ad una prospettiva (relativismo ermeneutico)
- Una psicologia complessa è sensibile all’epistemologia e consapevole dell’aspetto metaforico di ogni modello.
- La psicologia complessa è olistica, si ribella al riduttivismo naturalistico a causalità lineare. Non può quindi accettare nemmeno gli archetipi, che si rivelano essere naturalistici e causali come le pulsioni. Un principio di questo genere dovrebbe prevedere che il sistema olistico è inclusivo e aperto alle nuove ricerche empiriche e teoriche, anche se non coerenti col tipo psicologico dell’inclusore. Inglobare tutti i punti di vista storicamente raggiunti, integrandoli in un sistema coerente? Trevi sembra proporlo, ma credo una teoria troppo vasta sia come nessuna teoria e che il terapeuta non riesca più a lavorare tenendo presente una mole troppo vasta di opportunità e di punti di vista.
- La psicologia complessa non accetta né l’oggettivazione della psiche né una psicologia perennis. PC è soggettiva in quanto l’osservatore influenza l’osservazione. PC è storicistica e tipologica, nel senso che la psicologia non è perenne perché si appoggia alla storia e non alla natura e nel senso che è valido tanto Freud quanto Adler: quanto a Jung una teoria non ce l’ha. Egli si propone come il garante della legittimità e della limitazione di ogni psicologia.
- E ora?
Ora ci troviamo qui, incerti se prendere tutto come la Von Franz, vivendo nella totale confusione, se seguire la via evolutiva di Neumann, o la psicodialettica soggettivante di Montefoschi, o gli archetipi oggettivanti di Hillmann, o il criticismo soggettivante ed epistemologico di Trevi. A parte la prima via, che conserva tutta la totale incoerenza di Jung, ci si deve attendere che le altre vie siano parziali ma coerenti.
Possiamo affermare che è impossibile essere junghiani, come invece ci si può dire freudiani o adleriani. Freud e Adler hanno lasciato delle teorie coerenti (Freud addirittura tre), anche se solo metaforiche o forse errate, se paragonate alla ricerca empirica successiva. Jung non ha lasciato ai posteri niente di tutto questo: solo un’infinità di folgoranti metafore, da usare in modus disiectus. Se Jung avesse seguito una strada sola forse avrebbe avuto la possibilità di fondare una psicologia, ammesso che n’avesse la pazienza e l’ordine mentale. Se poi avesse seguito la via dei Tipi psicologici sarebbe stato l’epistemologo di ogni psicologia possibile, il guardiano della libertà di teorizzazione.
- Umore variabile
Jung, teso fra il relativismo delle verità parziali (unito all’aspirazione di inglobarle tutte) e la sua tensione alla verità assoluta, oscilla continuamente fra le due e si lascia sfuggire l’unica possibilità concreta e pragmatica, che Trevi descrive così: “sistemare, con coerenza e con la maggiore completezza possibile, una psicologia che si riconosce parziale, nell’ammissione della possibilità di altre psicologia parziali con cui stabilire una relazione dialogica la quale, nella più modesta delle ipotesi, avrà almeno una funzione stimolatrice ed euristica.
Tale funzione stimolatrice ed euristica, io credo, la avrebbe non solo il dialogo intersistemico, ma anche il sistema stesso, un qualsiasi sistema che ogni terapeuta si fa per le sue esigenze pratiche riconoscendolo parziale.
- Che cosa tenere e che cosa buttare di Jung
Per esporre un qualsiasi sistema coerente delle leggi junghiane si deve di necessità enucleare alcune cose e tralasciarne altre, dato che i vari temi in Jung si contraddicono l’un l’altro, data anche la sua capacità e la sua pretesa di accettare e di comporre le contraddizioni all’interno della stessa visione. La conciliazione degli opposti era una sua idea fissa: per lui non è mai stato necessario, quando due elementi si contraddicevano, scegliere o l’uno o l’altro, ma arrivava sempre ad accettare e l’uno e l’altro. Però questo lo faceva non soltanto quando si trattava di conciliare amore e odio, o maschile e femminile, e categorie simili, ma anche quando si trattava di accettare insieme e di far convivere affermazioni contrastanti o contraddizioni brutali, di natura ben diversa da quella di opposti significativi. Esaminiamo ora, come esempio di questo, alcune peculiarità junghiane e le loro incompatibilità.
- Prima peculiarità junghiana: la precomprensione archetipica.
Mentre Freud analizza “chimicamente” il composto che appare alla coscienza e si sforza solo di mettere in luce i componenti pulsionali e le difese contro di essi, Jung oltre a ciò mette anche in luce degli invarianti universali (archetipi) che organizzano sia le pulsioni, sia i dati culturali di quel composto. Entrambi sono occulti e vanno smascherati. Le pulsioni sono occultate dalla rimozione, come si vede facilmente nei nevrotici curati da Freud, mentre gli universali cadono in una sorta d’oblio a causa della differenziazione filogenetica. Forse quest’ultima influenza Jung la vide più facilmente nei suoi psicotici e in se stesso. Il punto di vista archetipico fu enucleato e privilegiato dalla corrente di Hillmann.
- Seconda peculiarità junghiana: la intersoggettività dialogica.
Mentre nell’analisi chimica un perito analizza un oggetto in modo neutrale, il metodo junghiano non è così oggettivante. Per Jung il soggetto non è neutrale, l’oggetto non è passivo, esiste un controtransfert, il campo è bipersonale, l’oggetto di studio di entrambi (paziente e analista) è la relazione intersoggettiva, reciproca, dotata di libero scambio. Abbiamo una prima incoerenza? Le pulsioni e le difese, gli archetipi non sono più al centro dell’attenzione dell’analista? O è nella, e attraverso la, relazione che questi tre elementi vengono studiati da entrambi e trasformati in entrambi? I ruoli dei due della coppia sembrano potersi livellare in una serie esauribile di rimandi intersoggettivi, in un’unione mistica e alchemica, come i due del Rosarium, che si uniscono e generano il figlio con una coniunctio simbolica, che conserva il suo segreto e il suo mistero. Nulla sappiamo di quello che accade fra i due, del vero motore del cambiamento, del fattore di efficacia, della relazione fra la verità e l’efficacia in ogni singolo caso. La cura della psiche avviene a mezzo dell’interazione psichica e della comunicazione dialogica. All’interno di questa comunicazione ogni interpretazione si offre come proposta rispettosa all’altro. Nell’interazione i due individui implicati si modificano reciprocamente mediante il dialogo. Come Heisenberg, col suo principio d’indeterminazione, sostiene che l’osservatore modifica, con le sue misure, l’oggetto fisico osservato, così Jung sostiene che l’oggettività psicologica non può esistere. Non si può eliminare la soggettività del ricercatore.
- Prima contraddizione: soggettivo od oggettivo?
Mentre la precomprensione archetipica è oggettivante, la intersoggettività dialogica condanna il metodo oggettivante.
- Terza peculiarità junghiana: la relazione io-tu viene prima dell’io.
L’io si costituisce solo nella relazione. Non può sfuggire qui la vicinanza di Jung al pensiero della Klein e alla teoria delle relazioni oggettuali.
- Quarta peculiarità junghiana: il supposto non sapere.
Jung prende sempre le mosse da un “non so”. Naturalmente questo non sapere è un’illusione. Il terapeuta inevitabilmente sa qualcosa, ma almeno così, ossia se è consapevole, mette in dubbio il proprio sapere. Dice a se stesso: So inevitabilmente qualcosa, ma sono disposto a metterlo in dubbio perché rispetto ciò che tu credi di sapere. La via della guarigione non è più allora pre-tracciata ma tutta da scoprire e da inventare, o addirittura costruire nell’interazione dialogica. Non c’è alcuna verità precostituita che possa precedere il dialogo, che è il vero fattore terapeutico.
- Seconda contraddizione: Sappiamo o non sappiamo?
Anche questo “non sapere” viene negato dal dogmatismo dell’ipotesi archetipica, data a priori una volta per tutte. Se non sapessimo nulla, se il dialogo fosse tutto, non dovrebbe esistere allora alcuno schema interpretativo aprioristico né di carattere pulsionale, né di carattere difensivo o archetipico, capace di precedere il dialogo e condizionarlo. Jung dispone invece di una rete concettuale preformata nella quale calare ogni esperienza, ogni novità, ogni storia.
- Non contraddizione ma sussunzione
Per ovviare alle impasses suddette alcuni epigoni di Jung cercano di sussumere pulsioni e archetipi all’interno del dialogo e di far sì che nel corso del dialogo essi si presentino non come gabbie precostituite ma come possibilità da integrare. Nel dialogo la personalità assume in sé sia le pulsioni che gli archetipi e li integra in quel tutto dinamico e imprevedibile che è il soggetto. Posto che gli archetipi esistono occorre procedere ad una loro ricognizione, ma solo come momento di una integrazione. Occorre riconoscere che tutto ciò è affettuosa, faticosa e devota opera di salvataggio compiuta dai discepoli. Jung non era mai stato disturbato dal caos. Ogni volta che cambiava idea, forse neanche se ne accorgeva; certamente non segnalava al lettore, scusandosi, come faceva puntualmente Freud, tale cambiamento di direzione.
- Non ci sono verità ma solo metafore efficaci.
L’efficacia forse risiede nella sorpresa che una metafora, finalmente comprensibile al paziente, che sia anche convincente e liberatoria per lui, può dare, in termini di mobilitazione di qualcosa di vero che ci resterà per altro sconosciuto. Fra la verità e l’efficacia dobbiamo scegliere l’efficacia, nel senso che dobbiamo trovare una chiave che apra un percorso nuovo, che resterà a noi sconosciuto, in cui qualche fattore della causazione multifattoriale venga a mancare. Dentro la psiche dell’uomo c’è sempre comunque un esito di verità a seguito di ogni intervento umano.
- Dai modelli psicologici alla psicoterapia.
La terapia junghiana vorrebbe essere una via della salute che si sviluppa su due livelli: uno medico e uno formativo. Il primo livello (in Jung appare già formativo esso stesso) si propone di curare la malattia psichica con alcuni (o tutti?) degli strumenti che la psicologia del profondo ha scoperto e in questo Jung segue, con poche varianti e alcune aggiunte, gli stessi metodi della PA freudiana. Le varianti alla tecnica freudiana consistono in una serie aperta, controversa e libera di differenze.
- Diverso metodo d’interpretazione dei sogni,
- diversa enfasi sul passato,
- diversa relazione analitica,
- diversa idea del transfert.
- Un più alto perfezionamento
Il secondo livello si propone, oltre a ciò e insieme a ciò o dopo di ciò, per chi ne ha le possibilità psichiche e spirituali, di portare l’uomo ad un più alto perfezionamento, ad una sintesi cui la PA non si propone di pervenire. Questo secondo punto è ciò che la caratterizza: il terzo momento della dialettica hegeliana.
- Il setting
Il setting è quello schematico, razionale, preciso di Freud, escluso il lettino e il numero delle sedute che consiste in una sola seduta settimanale in luogo delle tre/quattro.
- L’inversione di rotta della libido
Terminata la terapia medica si opera l’inversione di rotta della libido e si inizia il viaggio di ritorno ad un luogo di partenza che si scopre amplificato. In altre parole, con coloro che sono adatti, dopo aver ottenuto la recessione dei sintomi e la modificazione del carattere, si entra in altri territori, arrotondando, ampliando, colorando di luci più alte, di emozioni spirituali, transpersonali, mitiche, collettive.
- Il processo
In un certo senso possiamo pensare all’equazione: Jung = Freud + Jung. Anche il Processo è quello freudiano con ampliamenti, arricchimenti, espansioni. Anche nella terapia junghiana si parte dall’analisi, sia pure modificata, del transfert, dei conflitti e della resistenza, dalla correzione del deficit di rispecchiamento con l’esperienza emozionale della relazione. Le aggiunte di Jung alla tecnica freudiana rendono il suo metodo più ampio e più ottimista; orientato a ciò che è universale. Alla tecnica freudiana (analisi delle resistenze, del transfert, elaborazione) si apportano i contributi profondi della sintesi degli opposti, dell’analisi dell’Ombra, dell’amplificazione mitica, della psicodialettica, del passaggio dall’immediatezza alla mediazione, per limitarci ai contributi principali.
- Nevrosi = Perturbazione apportata da processi sani
Jung aggiunge alle precedenti teorie della nevrosi l’ipotesi di una sofferenza nevrotica come perturbazione apportata nel conscio da processi sani, archetipici, allorché il conscio sia orientato in modo da contrariarli, da impedire loro di esprimere pienamente il loro significato.
- Visione archetipica
La psiche del singolo, sottesa da una psiche collettiva, può essere realmente compresa, ed eventualmente guarita, solo con l’ausilio della conoscenza dei fantasmi e dei motivi della psiche collettiva.
- Dalla sofferenza nevrotica alla sofferenza esistenziale
L’analisi non è liberazione da tutta la sofferenza, bensì solo dalla sofferenza nevrotica. Qui Jung conferma Freud che diceva: si deve tornare dalla sofferenza nevrotica alla sofferenza esistenziale, ripristinando le condizioni precedenti la malattia. Ammalarsi è passare da una sofferenza propria ad una impropria. Guarire è fare il percorso opposto. La nevrosi è il sostituto di una sofferenza legittima, e nasce se si fugge una sofferenza reale. Occorre tornare a soffrire di cose reali.
- La mia selezione
Jung è tante cose. Di esse io ne adotto per la terapia solo alcune. Quindi anche per voi trascurerò gran parte dei suoi contributi: i tipi psicologici, le funzioni o fisiologia della psiche, l’anatomia della psiche, la sincronicità, la gnosi, l’alchimia, il Rosarium, il Misterium, la sincronicità, l’anima e l’animus. Darò invece la massima importanza alla sintesi degli opposti, al processo di individuazione, all’Ombra, all’amplificazione, al simbolismo.
- Il monismo, il dualismo, la dialettica
Talete (monismo) e Cartesio (dualismo), Fichte (Io e Non Io) e Hegel (Uno-Due-Uno), Freud (natura e cultura) e Jung (natura, cultura, sintesi)
- Antinomia vs conciliazione
Freud aveva posto il dilemma natura-cultura in termini inconciliabili: o libertà o repressione. Inoltre l’Io è per lui in balia del conflitto fra il principio del piacere e del principio di realtà, tra lo scarico e l’arginatura, fra natura e cultura. Jung risolve il problema ponendo l’Io come Terzo che porta in sé i termini del conflitto e li media.
- La dottrina dell’Io
La dottrina dell’Io segna la grande differenza fa i due. In Jung l’io è conscio. E conscio e inconscio sono per Jung aggettivi, non sostantivi. Io è due cose per Jung: a) insieme di rappresentazioni consce che stanno al centro della coscienza; a questo Io, a queste rappresentazioni consce, si contrappone l’Ombra, il Non-Io, l’Alter-Ego, b) funzione mediatrice fra Io e Ombra, fra coscienza e inconscio, fra individuale e collettivo.
- Anatomia della psiche
La psiche incontra il mondo esterno, la realtà, e il mondo interno, il Sé, attraverso l’Io nelle sue due funzioni, Persona e Anima. Abbiamo quindi in fila da dentro a fuori: Sé – Anima – Io – Persona – Mondo esterno.
- Mediazione simbolica
In un contesto di psicologia sociale Freud ci ricorda come la cultura abbia dovuto fondare istituzioni e metodi educativi che, sebbene costituiscano un indubbio disagio, sono tuttavia assolutamente necessari ma restano inevitabilmente opposti agli istinti naturali. Tale opposizione, lo ripetiamo, in Freud appare un’alterità immediata e insuperabile [FREUD, S., 1929]. In psicologia del profondo Jung ancora pone la stessa opposizione, ma non più in termini antinomici. Le terrificanti rappresentazioni dell’inconscio collettivo non possono essere trattate direttamente dal soggetto conoscente ma hanno bisogno di una mediazione simbolica [JUNG, C.G., 1912]. (NEGAZIONI, p. 53)
- O … O; E … E
Jung accoglie tutto nel suo sistema, anche gli opposti, anche due cose che affermano l’opposto. Accetta i fatti come li trova, per questo, e qui c’è una cosa importantissima, non accetta di esser considerato contraddittorio per questo. Jung non scarta una delle due dicendo o l’uno o l’altro (o … o, Entweder … oder) ma li accetta entrambi (e … e, Sowohl … als-auch). Jung non accetta di fermarsi alle antinomie ma crede che si possa procedere dialetticamente e operare una sintesi. Accade come in fisica. Onde o corpuscoli? Entrambi! Anche in fisica si parte dai fatti empirici e si procede senza abbandonarli, ma si arriva a conclusioni che sembrano inconciliabili o metafisiche.
- Uno in se stesso distinto
Il metodo junghiano fa incontrare un opposto con l’altro, in particolare l’Io conscio con il Non-io inconscio, e provoca un confronto fra i due che mira al superamento di entrambi in quanto separati, ma non in quanto distinti, e cerca la loro sintesi nella distinzione.
- E analista … E paziente
Esempio vivente e operante di questa dialettica e di questa sintesi deve essere la coppia analitica e il terapeuta junghiano deve accettare di porsi in gioco come elemento di una dialettica.
- Il legame transferale
Il legame transferale non è come in Freud una traslazione meccanica di proiezioni sullo schermo vuoto dell’analista, ma una reciprocità amorosa nell’hic et nunc. Il passato è meno importante, non è necessario rivivere l’antica emozione traumatica, ma semplicemente vivere ora le difficoltà attuali con un concreto Tu e potersi spiegare con lui.
- L’analista come pharmacon
Il compito del terapeuta non è dunque passivo, anonimo e neutrale come nel metodo freudiano; qui l’analista dà conto di sé e si pone in un’intersoggettività viva fra due esseri presenti e autentici. Più ancora che nella PA è necessario che l’analista junghiano, poiché viene visto molto di più, abbia uno spessore forte e integro.
- La relazione
Il contatto personale è d’importanza capitale perché costituisce la base, dalla quale soltanto ci si può fidare ad affrontare l’inconscio.
- Gli istinti fondamentali
Nell’800 era consolidata l’idea che esistessero tre istinti primari: la propagazione della specie, la conservazione della vita, l’ascesa dello spirito. Freud e Adler studiano di preferenza i primi due esasperandoli e puntando, il primo, sulla sessualità, e il secondo, sull’aggressività e la volontà di potenza.
- L’ascesa dello spirito
Jung accetta l’uno e l’altro nel proprio sistema, ma chiede il completamento del progetto umano puntando anche sull’ascesa dello spirito e caratterizza la sua opera ponendo l’enfasi su questo punto. Le tre vie possono essere percorse assieme. Jung rifiuta il postulato che uno di questi tre fattori abbia il predominio nel percorrere la via terapeutica. L’ascesa dello spirito è un istinto elementare, non derivando da alcun altro istinto. È un istinto prettamente umano, a differenza degli altri due che sono propri di tutti gli animali. Nell’uomo dunque può nascere una dicotomia, sconosciuta all’animale, fra due istinti: uno spirituale e uno naturale. Ma Jung come vedremo non conosce dicotomie ma sintetizza sempre le coppie di contrari.
- Un atteggiamento empirico
Jung ha qui un atteggiamento empirico; come fa per conscio e inconscio, che considera aggettivi e non sostantivi, anche per l’istinto preferisce l’aggettivo istintivo, limitandosi a considerare fatti o atti istintivi, che sono gli unici empiricamente riscontrabili.
- Strutture o metafore?
Jung userà anche le metafore, ma non cadrà mai nell’illusione freudiana di credere che una metafora sia una struttura. Es, Io, Superego, Conscio, Inconscio sono metafore metapsicologiche. Jung sa di fondare una psicologia soggettiva, pur quando cerca di attenersi ai fatti empirici. Naturalmente questo errore va attribuito solo a Freud, non ai freudiani contemporanei, che sono ben consapevoli di questo (cfr Thoma e Kakele).
- Mediazione fra coscienza e inconscio.
La coscienza rischia di essere inghiottita da un lato nel collettivo sociale o culturale, dall’altro nell’inconscio, il collettivo naturale. La coscienza però può diventare capace di un incontro con entrambi, in modo personale, singolare, individuato. Assumendosi il peso del proprio essere personali, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e dalle attese. Tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società. Occorre sperimentarsi nel conflitto e diventare consapevoli della propria capacità di confronto. Ognuno dei due collettivi allontana o proibisce all’io l’incontro con l’altro collettivo.
- Il processo d’individuazione
Il processo d’individuazione si realizza nel ripetuto incontro della coscienza con la società e con l’inconscio collettivo, dell’individuo con l’universo naturale e culturale. Da questi incontri l’identità dell’uomo sortisce ogni volta ampliata. Per realizzare questo in terapia c’è una lettura della vicenda individuale in chiave universale. Questi incontri con l’universo sono simbolizzati dall’incesto in quanto gli innocui genitori sono, per la psiche dei figli, i rappresentanti di potenti archetipi.
- Interpretazione ampliativa
L’ampliamento della coscienza a seguito dell’interpretazione ampliativa è solo un restringimento dell’inconscio, non una sua sconfitta. L’incontro dei due avviene nella coscienza. Il loro prodotto, la sintesi, risiederà nella coscienza. Nella terapia junghiana viene recuperata una fascia più grande d’inconscio, perché si recupera parte di inconscio collettivo: i simboli universali e gli archetipi.
- L’inconscio si traveste da simbolo
Come avviene tutto ciò? Dal momento che l’operazione è vietata, il contatto deve avvenire attraverso l’opera di mediazione fra chi impone il divieto e chi desidera infrangerlo. La mediazione, nel nostro caso, consiste in questo compromesso: se l’inconscio si traveste da simbolo può venire alla luce. Non si può fare l’amore col padre, si può fare l’amore col simbolo del padre. La nevrosi era stata un compromesso fra gli stessi due termini del conflitto. Soluzione sbagliata tuttavia, quella, perché interrompeva il dialogo.
- Simbolizzare e scaricare
Il simbolizzare ottiene la stessa distensione ottenuta con lo scarico. Esempio: se la terra è il simbolo della madre e per il figlio il congiungersi con la madre non può venire a giorno, può invece per lui divenir conscia l’intenzione di coltivare e seminare la terra, attività in cui si scarica un’energia di tipo sessuale.
- La coniunctio oppositorum
Fra i due opposti c’è da prima separatezza, per divieto di contatto diretto con l’oggetto, a causa della pericolosità dell’altro da sé. Ma si può sostituire quest’ultimo con il simbolo. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L’unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell’oggetto) è concessa. In terapia il simbolo è impersonato dall’analista. Analista che è analogo al padre, analogo alla madre. È l’analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di “analogo”.
- Il simbolo mediatore
Ma prima, all’inizio, padre e madre dovevano essere oggetti innocui. Cos’era poi accaduto? Come mai il padre e la madre non sono più oggetti semplici e concreti, ma sono diventati, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili? La qualità sconosciuta e inquietante che rende temibili padre e madre è la libido del figlio, che fa di un oggetto innocuo una “imago” archetipica. Ora questa imago, inavvicinabile a causa del divieto, dev’essere trasformata in un simbolo accessibile. Chi lo farà? Sarà la capacità riflessiva del conoscente che trasporta la libido dall’oggetto al simbolo (transfert?) e poi s’interesserà solo di lui. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto divenuto simbolo della libido. Dei due opposti uno solo compie l’opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo (l’oggetto-analista). La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché “risolta” dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto. Risolta perché l’unione fra i due ora può avvenire. Si opera la sintesi di soggetto e oggetto: ne risulta il sé, il figlio della coppia bambino-genitore, colui che è completo. La madre diventa il femminile interno al figlio con cui il maschile del figlio può congiungersi.
- La mediazione riflessiva
I rapporti fra cultura e natura sono anche rapporti di soggetto conoscente ed oggetto conosciuto. Vi sono tanti aspetti della realtà in cui tali due opposti non possono avere rapporti diretti. È allora che occorre l’opera del terzo. Il soggetto, in quanto capace di produrre simboli, opera una trasformazione dell’oggetto, a sua volta capace di assumere in sé il simbolo in forza dell’analogia, e lo investe di energia. Per prendere contatto con gli oggetti naturali in via mediata, occorre che la parte riflessiva o epistemologica del soggetto operi una trasformazione dell’oggetto da naturale a simbolico (ma in realtà si tratta di uno spostamento dell’investimento dall’oggetto originario all’oggetto simbolico), mediante l’operazione che il sogno ci ha indicato, e prenda poi contatti con l’oggetto simbolico da lei costruito con un procedimento creativo e artificiale. Anziché rapportarsi immediatamente con un oggetto naturale, il soggetto si rapporta con esso in modo mediato, tramite un oggetto da lui stesso prodotto. [ … ] L’artifex costruisce dunque se stesso: oggetto simbolico per un certo verso, soggetto di un’operazione epistemologica per un altro verso. Oggetto privo di mistero e di pericolo, è stato creato traendolo dalla natura, che deve esser assoggettata per questo ad un artificio consapevole della riflessione se si vuole che il soggetto sappia di se stesso e colga la forza dell’analogia che ha permesso la trasformazione dell’oggetto inquietante. Il soggetto ora sa con chi si rapporta e da quale posizione. Egli percepisce se stesso all’interno del terzo come soggetto riflessivo e sa di rapportarsi col terzo in quanto oggetto trasformato. Riflettere, distinguere e giudicare non è semplicemente negare o fuggire l’immediatezza del naturale ma soprattutto affermare la maggior adeguatezza, ai fini ontologici, della mediazione riflessiva. (NEGAZIONI, p. 56)
- Ineludibilità dell’analista
Nessuno può realizzare il processo da solo pena la perdita della socialità, il risprofondare nella natura. È solo nell’altro che è possibile incontrare il proprio inconscio, unirsi a lui restandone distanti, ossia senza sprofondarvi. Nell’incontro fra coscienza e inconscio, dialettico perché porta all’uno in se stesso distinto, si realizzano anche l’incontro fra soggetto e oggetto, fra soggettività e oggettività, fra attività e passività, fra maschile e femminile, fra ragione e pulsione, fra Io e Ombra, fra riflessione e immediatezza. È la generale congiunzione degli opposti dentro di sé.
Approfondire e ampliare la coscienza, rendendo conscio l’inconscio, istituendo una dialettica fra conscio e inconscio. L’inconscio in un primo tempo è rappresentato dall’analista
- Come procedere?
L’analizzato riferisce i dati della coscienza, il sogno fornisce quelli dell’inconscio, la relazione fornisce i dati oggettivi, l’amplificazione fornisce i dati di tutta l’umanità, la delucidazione fornisce … ; la discussione su coscienza, inconscio, relazione, amplificazione e delucidazioni completa il quadro.
- Piani d’azione
Confessione (gettarsi nelle braccia dell’umanità), messa in luce dell’universalità dei contenuti affettivi tramite l’interpretazione, educazione, trasformazione attraverso la dialettica con l’altro interno che è l’analista portatore della ferita sempre aperta. Amplificare i segni personali (dare ampio respiro di carattere universale alla sofferenza individuale), analizzare l’Ombra (tratti non vissuti e quindi proiettati), incontrarsi dialetticamente con lei, congiungere gli opposti, procedere verso l’individuazione. Come nella prospettiva freudiana i conflitti vanno resi coscienti e mantenuti coscienti. Ma nella prospettiva junghiana essi sono anche componibili in una sintesi dialettica.
- Individuazione dell’analista
L’analista junghiano fa di ogni seduta una tappa del proprio percorso individuativo. È attraverso ogni paziente che egli continua ad individuarsi.
- Amplificare
Occorre ampliare la coscienza senza rigonfiarla, senza hybris. Jung espresse questa possibilità parlando di numinosità, cioè della potenza pericolosa, sovrumana e affascinante dei contenuti dell’inconscio, pericolo reale di sommersione che corre l’io al loro contatto.
- La dialettica
a) Come congiungere gli opposti I e C? Non identificarsi con l’inconscio, non fuggire l’inconscio.
b) Differenziare i nostri due elementi sessuali opposti: per l’uomo l’ombra maschile e l’anima femminile.
c) La malattia consiste nell’ostacolo a procedere nella via individuativa. Risolvere la dialettica individuo-società. Non cadere nel collettivo né nell’inconscio, né nella Persona né nell’Anima.
d) La malattia mentale esprime l’incapacità a procedere dialetticamente nell’esistenza per il rifiuto di sostenere la tensione che questa dialettica comporta.
Verifiche:
- Verificare il motivo per cui due persone si incontrano
- Se il paziente non è significativo per l’analista, l’analista non ha parole per lui
- Fare lo sgambetto: se viene con animo razionale, devo focalizzare il discorso sulle emozioni. (“Che emozione sta davvero provando? In verità nessuna!”)
- I sogni possono essere cibo per le esigenze orali insoddisfatte dell’analista: così l’analista può avere un rapporto parziale col sogno, escludendo il sognatore
- Attribuire particolare importanza all’analisi del primo sogno
- Il sogno sceglie uno stimolo del giorno; ma perché quello e non un altro?
- Le immagini oniriche dello stesso sesso del sognatore esprimono figure d’ombra.
§
Nel regno delle madri
di Luciano Rossi
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Nella scena onirica il sognatore guarda il muro del corridoio di un convento. Vi sono appese le immagini del Rosarium Philosophorum (un testo alchemico del Cinquecento fatto di una dozzina di disegni con didascalia). Il sognatore nota che manca la tavola numero cinque che rappresenta un amplesso e che ha come titolo: coniunctio sive coitum. Al suo posto solo un riquadro chiaro sul muro sporco. Un frate grasso e unto sbocconcella animalescamente un tozzo di pane. È sporco anche il frate; ha briciole sparse per tutto il viso. Il frate si rivolge, agitato, al sognatore, con la bocca piena di pane ed indica a gesti il furto del “coitum”.
L’interpretazione che diedi del sogno fu la seguente: il ritiro della libido genitale è stato sostituito regressivamente da una funzione nutritiva (orale). Il frate manifesta col suo comportamento i guasti del ritiro della sua libido. “Ecco perché mangio con voracità”, sembra dire; e indica col dito la causa: la mancanza, in lui, del coitum. Non ha più voce, né capacità riflessive.
La libido ha i suoi simboli; come il frate, anche il sognatore non trova più il simbolo genitale dell’energia. Stanco, senza energia, si è lasciato andare ed è caduto, sprofondato nel regno di sua madre. Non vi è andato consapevolmente, per vedere cosa non aveva funzionato “là e allora”.
In realtà nel regno delle madri, come via d’evoluzione e di liberazione… ci si deve assolutamente andare, o tornare, pena la stagnazione. Ma guai ad andarvi in modo infantile, pigro e primitivo! Guai ad andarvi senza consapevolezza e riflessività! All’inferno si deve assolutamente andare, ma non senza Virgilio, senza la sua guida e il suo retto consiglio. Occorre “lasciarsi afferrare dall’amorfo [ossia dall’inconscio] per poi poterlo afferrare in forme culturali: correre il rischio della morte per rinascere a una nuova libertà” (S. Montefoschi, Jung, Un pensiero in divenire, p. 68). Ricordiamo anche l’affermazione di Freud a proposito del rischio (lo stesso del primo Adamo) che la conoscenza comporta: “Preferisco soccombere in una leale lotta col destino, piuttosto che vivere tutta la mia vita ai margini di me stesso”. Ricordiamo anche che, nonostante il rischio che comportava per lui questo viaggio, Freud (L’interpretazione dei sogni) era ben determinato a compierlo, quando affermò: “Si nequeo flectere superos, acheronta movebo” (Se non posso piegare gli dei, mi rivolgerò ai demoni).
Sinonimi di questo viaggio agli inferi, suggerito da Freud, possono essere per Jung, l’incesto, il calarsi nel regno delle madri, la regressione, il confronto con l’inconscio (così detto se compiuto con consapevolezza) o, in alternativa, la caduta nell’inconscio (se lo stesso moto avviene privo di consapevolezza), la consapevolezza o, in alternativa negativa, la pigrizia.
È soprattutto della pigrizia che vogliamo parlare, intendendola qui come regressione dolce e mortale, anche quando si presenterà sotto le spoglie dei suoi sinonimi. Lo faremo principalmente per indicare la via alternativa, fatta di consapevolezze e volontà riflessiva.
L’incesto è il primo dei sinonimi che si presenta; lo possiamo vedere all’opera nella definizione che segue: “L’impulso all’incesto è, secondo Jung, l’aspirazione alla rinascita mediante il ritorno nel grembo materno” (S. Montefoschi, ibidem, p. 67). Definizione che ci fa conoscere anche gli scopi buoni della regressione incestuosa, di quel dolce tornare, e restare, nel tiepido del nido, che è anche, non dimentichiamolo, il regno temibile e invitante delle Madri.
Tanto temibile e attraente che l’umanità ha imposto a se stessa il divieto dell’incesto a causa dell’angoscia suscitata in lei “dalla sua stessa tendenza a tornare nella primitiva armonia con la natura, perché essa è la morte dell’Io” (S. Montefoschi, ibidem, p. 67). Morte dell’Io se alla natura si torna con pigrizia e senza consapevolezza; momento sacrificale e produttivo di buoni frutti invece, se alla madre si torna con la luce della conoscenza e la vigilanza della consapevolezza.
“La regressione – dice Jung – riporta solo in apparenza alla madre [personale]; in realtà la regressione apre la porta al Regno delle Madri [che è tutt’altra cosa: notare le maiuscole]. Chiunque vi penetri sottopone la [sua] personalità cosciente [al pericolo della] influenza dominante dell’inconscio” (Jung, Simboli della trasformazione, pag. 323). E il pericolo viene evitato se la regressione “non si arresta alla «madre» [piccola, personale], ma risale al di là di essa per raggiungere un «eterno femminino» prenatale, il mondo primordiale delle possibilità archetipiche” (Jung, Simboli della trasformazione, pag. 323).
Ancora Montefoschi aggiunge: “Il primitivo corre costantemente il rischio che la propria presenza conscia, la propria individualità, si dissolva di nuovo nella sua vita incosciente. [Sono] i suoi stessi contenuti psichici [che] minacciano di travolgere il suo debole Io [perché lui, in quanto primitivo, non ne è, ipso facto, avvertito]; … l’Io primitivo è troppo labile per non lasciarsi travolgere. (S. Montefoschi, ibidem, p. 68).
Per superare questo rischio di inghiottimento e di perdita di sé occorre dare ai contenuti “un volto e un nome” oggettivandoli e personificandoli, facendoli uscire per ciò stesso dalla nebulosità primitiva. “Per fare ciò deve però lasciarsi afferrare dall’amorfo [dall’inconscio] per poi poterlo afferrare in forme culturali: correre il rischio della morte per rinascere a una nuova libertà” (S. Montefoschi, ibidem, p. 68).
Il primitivo si serve del rito, dello stregone, per affrontare (senza saperlo) il regno delle madri. Per essi lo sciamano entra “in rapporto col caos psichico … dando ad esso delle forme: gli spiriti” (S. Montefoschi, ibidem, p. 68).
Per l’uomo evoluto e avvertito invece la regressione può esser compiuta senza danno. Il suo fine può essere diverso. “Il fine ultimo della regressione… è la possibilità di un ulteriore progresso sul piano della coscienza [reculer pour mieux sauter; indietreggiare per saltare più in alto], possibilità espressa simbolicamente dalla nascita del Dio e dell’Eroe. (S. Montefoschi, ibidem, p. 68).
Chi compie questo nuovo percorso ha il suo archetipo nell’Eroe dei miti. Chi è l’Eroe? “L’eroe dei miti [è colui che] combatte l’angoscia con tutta la sua potente aspirazione verso il fine. Egli è quindi il simbolo dell’Io che riesce ad accettare il dialogo col Non-Io, a confrontarsi con la propria morte … [La figura dell’Eroe] permette all’uomo il pericoloso dialogo tra la coscienza e l’inconscio” (S. Montefoschi, ibidem, p. 69).
Il confronto col mostro inconscio è la prova eroica che permette di confrontarsi con l’Ombra materna, di ucciderla come mostro e recuperarla come energia creativa, e attraverso la Luce dell’oggettivazione, della personazione, della consapevolezza, del retto consiglio sottrarsi alla morte per inghiottimento.
“L’Io deve [per una fase sacrificale e rischiosa] rinunciare al dominio sul Non-Io e alla distanza dal Non-Io, mettere a repentaglio la certezza del suo esserci [come Io] per lasciarsi riprendere [riavvicinare] dall’Ombra, dalla Madre, che lo rigenererà (S. Montefoschi, ibidem, p. 78).
L’Ombra dell’Eroe è la Madre. Essa fu anche l’Ombra di Freud e Jung, i primi eroi di questo mito moderno che è la psicanalisi.
La contesa del figlio Jung con padre Freud per il possesso della Madre, la psicanalisi, richiese a Jung la consapevolezza, che a Freud mancò, che si trattava della Grande Madre e non della piccola madre, e che quindi si sarebbe usciti indenni dal divieto dell’incesto, solo se si andava oltre, nel regno mitico delle Grandi Madri, che possono simbolicamente rigenerare.
L’opera per l’integrazione della madre può terminare nella conciliazione fra la coscienza dell’Eroe e la sua Ombra-inconscio, un traguardo che la rinascita nel regno delle madri consente all’Eroe, e che si situa al di là del tabù dell’incesto.
Cosa significa rinascere?
Rinascere è individuarsi. Una “condizione nella quale la propria originalità può essere vissuta, senza doverla negare per conformarsi alle richieste collettive” (R. Màdera, Jung. Biografia e teoria, p. 43).
Aggiunge Màdera: “Ogni difficoltà nell’adattamento … può costituire quell’ostacolo di fronte al quale [si può indietreggiare inconsapevolmente] cercando conforto nel mondo della madre, in una sorta di beata indifferenziazione inconscia. È il momento dell’introversione e della regressione, grande pericolo, [ma che insieme potrebbe essere, se compiuto nella riflessività] unica risorsa di salvezza. (R. Màdera, Jung. Biografia e teoria, p. 43).
E ancora: “La reimmersione nella madre – nelle acque dell’inconscio – può, infatti, imprigionare nei lacci dell’inerzia autodistruttiva. Al contrario, se la lotta con la madre è vinta [ossia se è condotta coi metodi e la luce della coscienza anziché con le nebbie dell’inconscio], il ritorno al compito, che la vita aveva posto dinanzi, è vivificato dal tesoro [della] energia (R. Màdera, Jung. Biografia e teoria, p. 44).
Energia come contrario di quell’inerzia a cui dolcemente la nostra anima inclina. Dice, infatti, Jung: “La facilità con la quale la libido regredisce sembra tragga origine dall’inerzia specifica della libido stessa, la quale non vuole abbandonare alcun oggetto del passato [la madre e le modalità infantili ad essa legate] e vorrebbe al contrario conservarlo per sempre. Una volta spogliata dal suo involucro incestuoso, la “marcia sacrilega a ritroso” … si rivela come un arresto passivo della libido ai primi oggetti dell’infanzia. Questa inerzia però è anche una passione, come dice La Rochefoucauld: «Fra tutte le passioni, la più ignota a noi stessi è la pigrizia, che è la più ardente e la più maligna fra tutte … Il riposo procurato dalla pigrizia ha un fascino esercitato sull’anima, che d’improvviso sospende … le risoluzioni più tenaci. Per dare infine un’idea vera di questa passione, occorre dire che la pigrizia è come una beatitudine dell’anima, che la consola di tutte le perdite e fa le veci di tutti i suoi beni». Questa passione pericolosa appare sotto la maschera scabrosa dell’incesto … è la generatrice di un’infinità di mali [ed] è soprattutto dalle caligini dei residui stagnanti di libido che si formano quelle nebbie perniciose della fantasia che velano la realtà al punto da rendere impossibile l’adattamento” (Jung, vol. 5, p. 176/177).
La pigrizia, o l’immobilità nel già dato familiare, è un invincibile ritorno alla madre e alle modalità infantili ad essa legate, una “corrente che procede a ritroso” (Jung) anziché andare verso il mondo e l’adattamento.
§
Metapsicologia junghiana
di Luciano Rossi
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Esposizione mitico-biografica
Cluster del confronto con l’inconscio
Esposizione metapsicologica
Il modello topico, strutturale e funzionale
Il modello economico o energetico
§
Due modi per parlare di Jung
La maggior parte delle esposizioni della psicologia junghiana (vedi Aversa, Carotenuto, i vari biografi, ecc.) è strutturata più o meno nei seguenti capitoli: i simboli, la trasformazione della libido, i miti, i tipi, i complessi, gli archetipi e l’inconscio collettivo, il confronto con l’inconscio, il processo d’individuazione, il sé, l’alchimia, la gnosi.
Tutto questo avviene ad imitazione sia delle Gesammelte Werke (ossia l’Opera omnia di Jung), sia dell’autobiografia, stesa da Aniela Jaffé. Ma una struttura espositiva di questo tipo non offre possibilità di facile confronto con quella d’altre scuole psicodinamiche, in particolare con quelle freudiane e post freudiane.
Così ho preferito offrire al lettore un’esposizione che consenta questo confronto col mondo della psicanalisi freudiana, il più diffuso nelle Università e nella cultura in generale.
Ne conseguirà certamente una visione insolitamente tecnica dello junghismo, che potrà forse sorprendere per la novità, ma spero anche per la chiarezza.
Non ho trascurato tuttavia di presentare brevemente, ma in modo sistematico, l’abituale esposizione mitografica cui siamo abituati.
Ne conseguono due cernite degli elementi presenti nel gran calderone junghiano: una mitico-biografica, l’altra metapsicologica. La prima fatta di tre clusters, la seconda di tre modelli.
Vediamole prima in sintesi poi le riprenderemo con maggior dettaglio.
A – Esposizione mitico-biografica.
Esiste un altro livello d’osservazione della libido e dell’Edipo, oltre a quello biologico, biografico e personale, caratteristico di Freud; un livello tramite il quale si può comprendere sia la totalità, sacralità e spiritualità della libido, sia la regalità e la divinità dell’incesto. Sarà la via percorsa da Jung.
Questo livello va da prima cercato nell’inconscio collettivo e nelle sue immagini, ponendoci poi come coscienza di fronte a lui e con lui dialogando.
Dobbiamo in fine integrare i frammenti inconsci che reperiamo in questo confronto (ossia i contenuti d’Anima ed Ombra) con i loro opposti che stanno nella coscienza, come insegna l’alchimia.
Ci sono dunque tre momenti successivi nella visione mitico-biografica junghiana che si concretizzano in tre clusters: cluster del mito, del confronto, della coniunctio.
- Cluster del mito (totalità della libido, mitologia e sacralità dell’incesto, simboli della trasformazione, amplificazione, archetipi, inconscio collettivo)
- Cluster del confronto con l’inconscio (incontro di coscienza-figlio e inconscio-madre, anima mediatrice, immaginazione attiva, processo d’individuazione, funzione trascendente)
- Cluster della coniunctio di coscienza e inconscio, ossia dell’incesto (alchimia, luogo della mediazione, il terzo simbolico, la congiunzione degli opposti, misterium coniunctionis, rosarium philosophorum, psicologia del transfert, relazione fra Senior e Adolfo, mandala, sé transpersonale, gnosi)
B – L’esposizione metapsicologica.
La visione mitico-biografica junghiana non consente tuttavia di confrontare il metodo junghiano con quello freudiano, che era impostato (a partire dal 1915) su base metapsicologica. In cosa consiste la metapsicologia freudiana? Limitiamoci a considerare i tre livelli principali (in seguito diventeranno sei, che funzioneranno come modelli o teorie distinte): strutturale, energetico, dinamico.
1 – Nella psiche sono individuabili strutture, funzioni, tipi.
2 – Questi contenuti sono dotati d’energia.
3 – Perciò possono vivere vicende conflittuali, ossia dinamiche, ma componibili simbolicamente.
In questo lavoro affronteremo un tentativo di sistematizzare il materiale mitico disperso lasciatoci da Jung, dandogli una forma che abbiamo chiamato “dimensione metapsicologica”. Questo facciamo allo scopo di poterlo poi comparare con la metapsicologia freudiana. Gli daremo quindi la stessa forma tripartita usata da Freud.
Partiremo dalla esposizione mitica usata da Jung per proporre il suo materiale, per poi organizzare a livello metapsicologico gli elementi mitografici esposti.
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A – Esposizione mitico-biografica junghiana.
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A1. CLUSTER DEL MITO
Totalità della libido
Dal 1900 al 1909 Jung vede soprattutto psicotici. Osservando il ritiro degli psicotici si avvede che essi perdono il contatto con la realtà. Dunque l’investimento che essi tolgono dall’oggetto è totale. Poiché Freud identificava tale investimento oggettuale con la libido sessuale e sosteneva che l’investimento è solo sessuale, Jung insiste per una correzione del termine. Se valesse la definizione di Freud, quando la libido vien ritirata dagli oggetti dovrebbe restare su di loro ogni investimento non sessuale, ma non è così. La libido investe dunque campi più ampi che non la sola sessualità. È una questione solo terminologica?
Mitologia e sacralità dell’incesto
Nei primi tempi del Burghoelzli Jung conosceva solo l’inconscio personale. Fu solo quando si diede allo studio della mitologia (1909) che assunse la consapevolezza dell’inconscio collettivo, nel cui ambito l’incesto assume connotazioni molto diverse da quelle anagrafiche e personali.
Inoltre gli psicotici vedono nell’incesto una dimensione mitica. Una catatonica del Burghoelzli (1908), per esempio, si era rifugiata in un regno fantastico dove l’incesto è di casa ed è prerogativa dei re e degli dei.
Ma prima del 1911 Jung era convinto che il pensiero fantastico fosse un rapporto incestuoso con l’inconscio, immorale dal punto di vista intellettuale … accettabile solo negli psicotici o in una “miss Miller”. Jung considerava allora il mithos immorale nei confronti del logos.
È solo studiando i miti e la cosmografia che si rende conto che, per alcune strutture umane primarie, l’incesto, ossia il confronto con l’inconscio, ha un aspetto accentuatamente religioso. Dunque non deve esser più interpretato in senso biografico ma quale simbolo d’idee più elevate.
Simboli della trasformazione
Il sogno della casa a 4 livelli risveglia in lui la passione per l’archeologia e questa a sua volta risveglia l’interesse per il mito. Non si può capire gli psicotici senza l’ausilio del linguaggio mitico. A rinforzare questa convinzione sopraggiungono le fantasie di miss Miller.
Esce così “Wandlungen” (1912), in cui viene narrata la nascita furiosa di un nuovo mondo psicologico… disiecta membra che Jung non può sistemare in modo adeguato.
Alla ricerca di un mito personale Jung deve riconoscere che il suo mito non è né il cristianesimo né la psicanalisi. Solo rinnovandoli entrambi essi potrebbero essere inscritti nel suoi miti personali che sono la gnosi (la nuova religione) e l’alchimia (la nuova psicanalisi). In esse l’incesto è la via dei re, degli dei, degli eroi. E la libido è totale, spirituale, religiosa.
“Ero cresciuto in campagna, tra contadini – scrive Jung (RSR, p. 208) – … nelle stalle … l’incesto e le perversioni non erano per me novità degne di nota e non richiedevano particolari spiegazioni … «Il fatto è che tutta quella gente [sicuramente parla di Freud e dell’Edipo] è vissuta in città e non sa niente della natura e della stalla umana» pensavo, profondamente seccato … “
Amplificazione
“Secondo me l’incesto significava [un evento] personale solo in casi rarissimi. Di solito esso presenta un contenuto fortemente religioso, motivo per cui il tema dell’incesto ha una parte decisiva in tutte le cosmogonie e in numerosi miti”.
Nel valutare queste fantasie è dunque necessaria l’amplificazione, metodo in aggiunta, e parzialmente in contrapposizione, a quello delle associazioni libere, che è introdotto da Jung per lo sviluppo, in ampiezza e in intensità, delle espressioni inconsce onde permetterne una possibile lettura psicologica. Uno specifico tipo di amplificazione è il metodo comparativo: “Per interpretare (…) i “prodotti” dell’inconscio, mi si è (…) imposta anche la necessità di una lettura totalmente diversa dei sogni e delle fantasie che io – quando ciò mi è sembrato corrispondere alla natura del caso – non ho più ridotto, come Freud, a elementi pulsionali, ma ho posto in analogia con i simboli della mitologia, della storia comparata delle religioni e con altro ancora, per riconoscere il significato sotto il quale essi si apprestavano ad agire. Questo metodo ha prodotto in effetti risultati estremamente interessanti, anche perché ha permesso una nuova lettura dei contenuti onirici e fantastici, per cui è diventato possibile operare una riconciliazione tra la personalità cosciente e le tendenze arcaiche altrimenti incompatibili con la coscienza” (1930a, p. 351).
Il sogno
Rispetto al fatto che il sogno veicola e non occulta altro materiale psichico, Jung paragona la pratica analitica a quella filologica: come quest’ultima, essa adotta lo strumento dell’amplificazione per l’indagine sul testo, integrandolo con lo strumento associativo per quanto riguarda, in particolare, lo specifico contesto di un particolare testo: “L’assunto che il sogno voglia occultare qualcosa è semplicemente un’idea antropomorfica. Nessun filologo penserebbe mai che una difficile iscrizione sanscrita o cuneiforme voglia nascondere qualcosa. Nel Talmud troviamo un’asserzione molto saggia: “Il sogno è la sua propria interpretazione.” Il sogno è un tutto, e se credete che abbia un che di misterioso o che nasconda qualcosa, sicuramente non lo avete capito. Perciò, per prima cosa, quando ci troviamo davanti a un sogno, dobbiamo dirci: “Non capisco un bel niente.” Questo sentimento di incompetenza è sempre ben accetto da parte mia, perché allora so che mi impegnerò a fondo per capire il sogno. Ora vi spiegherò come mi comporto. Adotto il metodo del filologo, che è ben lontano da quello della libera associazione, e applico un principio logico che si chiama amplificazione. Si tratta semplicemente di ricercare paralleli” (1935b, p. 95).
Archetipi, inconscio collettivo
L’inconscio collettivo è il luogo degli archetipi, che si manifestano nei sogni, nell’immaginazione attiva, nei miti, nelle fiabe, nelle religioni. Immagini universali presenti nell’uomo fin dai tempi più remoti. Immagini primordiali, dominanti, disposizioni ereditarie, programmi, capaci di costellare l’esperienza secondo schemi innati. Gli archetipi interagiscono con l’ambiente formando immagini numinose. Conosciamo gli archetipi dai miti; e ne riscontriamo la presenza nelle fantasie degli psicotici. Essendo gli archetipi meno presenti o meno chiari nelle fantasie nevrotiche, Freud e Adler non ebbero la stessa possibilità empirica di osservarli frequentemente come Jung ebbe al Burgholzi. Si tratta di forme tipiche dei modi di pensare e di agire dell’uomo, e quindi una possibilità innata di rappresentazione che in quanto tale presiede all’attività immaginativa.
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A2. CLUSTER DEL CONFRONTO CON L’INCONSCIO
A confronto con l’inconscio
Preda della depressione per la separazione da Freud, Jung decise di guardare finalmente solo a se stesso e ai tesori del proprio inconscio. Cominciò in uno strano modo: ammucchiando sassi nel suo giardino di Kusnacht. Nel fare questo provò profonde emozioni e si accorse che dietro ogni emozione c’è un’immagine. Scoprì anche che non ci si deve fermare al sentire le emozioni, col rischio di esserne travolti, ma che si deve lavorare con le immagini. DISEGNÒ QUESTE IMMAGINI e si accorse che questo oggettualizzava le emozioni, le poneva davanti a sé, ne prendeva le distanze, evitando il rischio di starvi dentro ed esserne allagato. È una resa dei conti fra coscienza e inconscio. Si obbliga l’immagine ad un confronto che avrebbe evitato. L’immagine è costretta dire cosa vuole da noi.
Jung chiamò quest’attività col nome d’immaginazione attiva e la divise in quattro parti: svuotamento o rilassamento o meditazione, fissazione dell’immagine o focalizzazione, oggettivazione, attivazione e confronto.
“Il primo agosto scoppiò la guerra mondiale … e cominciai con l’annotare le mie fantasie … si scatenò un flusso incessante … dovetti fare esercizi di yoga per dominare le mie emozioni … fino a quando ritrovavo la calma … appena sentivo di essere nuovamente in me cessavo di controllarmi e consentivo alle immagini … di esprimersi … Filemone e le altre immagini della mia fantasia mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dall’io, ma che si producono da sé e hanno una vita propria … i pensieri erano dotati di vita propria, come animali nella foresta … ” (RSR, pagg. 218-226). Questo io e questi animali della foresta sono la coscienza e l’inconscio. In questo incontro Jung, ma più ancora Neumann vi vedranno l’incontro simbolico del figlio con la madre. È questa la forma che prende l’Edipo nello junghismo.
Incontro di coscienza-figlio e inconscio-madre.
Universalmente proibito, in certe società l’incesto risulta invece consentito se non addirittura prescritto a determinati individui (quali i re), definiti dalla condizione d’eccezionale “potenza” che li separa dagli altri uomini e dalle leggi comuni. In questi casi l’atto incestuoso assume il significato di un venire in contatto con la potenza “regale” e quindi con lo status originante ogni legge e divieto.
“Ciò che importa soprattutto è distinguere tra la coscienza e i contenuti dell’inconscio. Bisogna che uno riesca ad isolare quest’ultimo, per così dire, e ci riesce facilmente personificandolo e istituendo poi un rapporto fra lui e la coscienza. Solo così si può togliere il potere che diversamente avrebbe sulla coscienza”. (RSR, pag. 230)
Anima mediatrice
“Dopo aver finito Wandlungen …, per ben tre anni, non mi era riuscito di leggere anche solo un libro scientifico. Cominciai a pensare di non poter più aver a che fare col mondo dell’intelletto2 (RSR, pag. 237)
“Mentre annotavo le mie fantasie una volta mi chiesi: «Che cosa sto facendo realmente? Certamente ciò non ha nulla a che fare con la scienza. Ma allora che cos’è». Al che una voce in me disse: «È arte». Sapevo per certo che la voce proveniva da una donna, e vi riconoscevo la voce di una paziente, una intelligente psicopatica che aveva per me un forte transfert (crediamo oggi che si tratti di Sabina Spielrein) … Probabilmente, pensai, dev’essere l’anima.
Immaginazione attiva
“Riflettei che la donna in me non possedeva un centro della parola e così le proposi di servirsi della mia lingua. Accettò la mia proposta e subito espose il suo punto di vista con un lungo discorso.
“In seguito giunsi a capire che questa figura femminile interna rappresenta una parte tipica, e archetipica, dell’inconscio dell’uomo, e la indicai col nome di «anima», mentre chiamai «animus» la figura corrispondente nell’inconscio della donna. (RSR, pag. 229)
“Ogni sera scrivevo coscienziosamente le mie annotazioni, e poi pensavo: «Se non scrivo all’anima, non può intendere le mie fantasie».
L’IA si dispiega nel colloquio con l’anima. L’anima è traduttrice, interprete, ambasciatrice dell’inconscio alla corte della coscienza. Se vogliamo confrontarci con l’inconscio dobbiamo passare attraverso l’anima.
L’anima è il tramite fra coscienza e inconscio, il messaggero dell’inconscio; in questo senso ha una funzione positiva. Ma possiede anche un’ambiguità che può annientare la coscienza.
Barbablu e Lorelei
L’anima negativa è una donna maliarda: la maga Circe, le Sirene di Ulisse, la Lorelei dei germani, che ti attira nel gorgo. Tutte queste figure sono l’anima nostra proiettata all’esterno. È il suo femminile interno che può portare l’uomo alla perdizione. Quando la nostra anima si concretizza in una donna esterna allora nasce l’innamoramento. Che, se l’anima è civetta porta alla rovina.
Racconta la fiaba che un cacciatore, giunto sulla riva del fiume, vede sull’altra sponda comparire una donna bellissima, uscita per incanto dalla foresta. Questa lo chiama: “Vieni, ti abbraccerò, il mio ‘nido’ è vicino. Vieni”. Il cacciatore si spoglia ed entra nelle acque gelide del fiume per attraversarlo a nuoto. Allora la donna si trasforma in civetta e vola via beffeggiando oscenamente il cacciatore mentre questo sta annegando nelle acque ghiacciate del fiume.
Anche la sirena Ligheia fa innamorare il pescatore e lo invita poi a segirlo nella profondità del mare.
O Lorelei, rupe degli Elfi, a pimbo sul Reno, è abitata da una fanciulla incantatrice che col suo canto ammaliatore distrae dal giusto corse i naviganti e li porta a naufragare contro la rupe.
Chi fa una proiezione d’anima cade poi vittima del tranello da lui stesso preparato.
Ma l’anima può essere anche buona e la gnosi conosce il passaggio della seduzione dalla perdita alla salvezza. Quattro figure d’anima conosce la gnosi: Eva, che perde l’umanità tutta, Elena, che attira sessualmente e attira in una guerra lunga e rovinosa, Maria, che solleva ad altezze spirituali, a Sofia, eone supremo che guida ai massimi livelli di sapienza.
Occorre saper distinguere la Guida compassionevole dalla civetta ingannatrice. Per poterlo fare correttamente occorre continuare, come per l’Ombra, ad interrogare i sogni.
Anche la donna può perdersi dietro la seduzione del suo Animus (Barbablù, l’ufficiale dei dragoni, il ladro gentiluomo, l’affascinante mascalzone, il giocatore che la deruba, il tenente francese, l’alcolista che la picchia). La donna s’innamora della propria malvagità.
A volte una singolare coincidenza può fare incontrare l’animus sparviero e l’anima civetta, unione in cui non si proietta e nessuno dei due perisce (vedi Rossella O’Hara e Rett Butler).
La funzione trascendente
È la capacità di trascendere la frontiera attuale fra coscienza e inconscio e di stabilire una nuova frontiera; di spostare sempre più in là il confine con un diuturno confronto, con quel dialogo che Hillmann chiama il “fare anima”.
La coscienza si separa dal rizoma, inconscio collettivo, nei primi anni di vita. La coscienza infantile, nata dal rizoma, contiene inizialmente tutti gli elementi che in seguito all’educazione sociale dovrà poi rimuovere facendone degli opposti. È così la coscienza a produrre l’inconscio personale, l’Anima e l’Ombra.
Il confronto con l’inconscio sarà dunque un ritorno dei contenuti rimossi, un percorso eroico che andrà a recuperare ciò che ha già fatto parte della coscienza e prima ancora del rizoma. Tornerà ad espandere la coscienza com’era stata all’inizio e getterà così un nuovo sguardo sull’inconscio collettivo, realizzandosì come sé transpersonale.
L’Ombra
Come l’Anima è l’opposto di genere, così l’Ombra è l’opposto etico ai contenuti unilaterali della coscienza. Se la coscienza tiene per il governo, l’Ombra sosterrà l’opposizione. Essa è pericolosa quando è misconosciuta, in quanto la coscienza la proietta sul nemico e odia la propria Ombra nell’avversario. Dobbiamo ritirare l’Ombra dai nemici ed operare la sintesi. Prima del ritiro essa è ciò che non si desidera conoscere da vicino e che, quindi, può solo rivelarsi estemporaneamente in un atto impulsivo e involontario. La sua funzione è quella di rappresentare l’aspetto etico dialetticamente opposto all’Io.
Non sempre l’Ombra è buona, come non sempre lo sono l’Anima e il Sé. E non sempre l’Ombra (difetto vitale che si deve vincere) è distinguibile dal Sé (elemento vitale che si deve accettare). Escono a volte insieme. Quando i nostri sogni ci presentano figure ambigue che ci sembrano pretendere qualcosa da noi, non possiamo sapere se esse rappresentino l’Ombra, il Sé o entrambi. Non ci è facile sapere se questo misterioso compagno sia un difetto o un elemento vitale da seguire. Non resta in tali casi che accettare il disagio del dubbio etico, senza prendere decisioni o impegni definitivi e continuando ad esaminare i propri sogni. Se tutti i tentativi di comprendere falliranno, non ci resterà che assumere le nostre responsabilità e fare tutto quello che ci sembra più giusto (von Franz, L’uomo e i suoi simboli, pagg. 173-176)
La compagna di viaggio
C’è bisogno di parlare di queste immagini con qualcuno. Lui lo fece con Toni Wolf, la sua nuova “anima” dopo la rottura con Sabina. Se Toni non gli era vicina a Jung prendeva l’agitazione e la depressione. Jung chiedeva sempre che IA venisse fatta con qualcuno in grado di comprendere.
Ma l’accento fondamentale va posto sull’OSSERVAZIONE. L’inconscio è oggettivo e reale e come tele può essere osservato. L’osservazione serve per ASCOLTARLO e COMPENSARLO.
I passi sequenziali sono:
immaginazione attiva >> confronto con l’inconscio >> funzione trascendente >> integrazione dell’Ombra e dell’Anima >> ritiro delle proiezioni e restituzione delle introiezioni >> completezza e individuazione >> congiunzione degli opposti >> mandala >> Sé
Il mandala
“Fu solo alla fine della guerra … che un po’ alla volta cominciai ad emergere dall’oscurità. Vi contribuirono due fatti: il primo che ruppi con la signora [Sabina Spielrein] che voleva convincermi che le mie fantasie avessero un valore artistico; il secondo … fu che cominciai a capire i disegni mandala” (RSR, pag. 239)
Jung scoprì che l’uomo aveva sempre disegnato la sua aspirazione alla totalità. Ciò che l’uomo disegna è ciò che aspira a diventare.

Possiamo considerare il Mandala come un disegno raffigurante sia il cosmo che la psiche. Dal punto di vista dinamico, si tratta di uno schema di disintegrazione centrifuga dall’uno al quattro (più spesso dall’uno al molteplice) e di reintegrazione centripeta dal molto all’uno. Per Molteplice intendiamo la periferia, condizione in cui gli opposti sono dispersi ai quattro angoli del mondo. Per Uno intendiamo sia il centro che la psiche intera, integrata, ordinata, distinta. Perché entrambi? Perché questo centro è un centro che ha visto il tutto e che continua ad essere il tutto. È dunque un centro che è anche una visione del tutto. Non si riesce a guardare il centro senza vedere, e vedervi, il tutto. Né si riesce a guardare il tutto senza esser portati al centro. Dunque il mandala è sia simbolo del centro che della totalità. Così com’è il Sé per Jung.
L’estrema periferia (il quadrato) è l’elemento che più d’ogni altro può ricordarci la frammentazione psichica, la centrifugazione dei frammenti, ma costituisce anche un solido baluardo contro la possibilità che questa si concretizzi in una fuga da una cinta brecciata. Una psiche integrata è un tempio, un mandala vivente.
Infatti nel mandala tetramorfo il numero che lo sguardo coglie è sempre il cinque. Ogni quadrato suggerisce la concretezza di un quinto elemento: il centro, la quintessenza. Anche se non è disegnato da un punto, due diagonali o una croce.
Molti templi sono mandala e allora sono anche una psiche e un mondo. Una moschea ha una cupola e quattro minareti. Una chiesa cristiana a pianta quadrata ha una cupola e quattro cappelle.
Del mandala può farsi una lettura in essere o in divenire. Può esser letto come meta e come processo di disintegrazione o di reintegrazione dei disaggregati. Quest’ultimo fa sì che si presti ad una rappresentazione euristica e terapeutica suggerendo un sempre rinnovato confluire, nello sguardo, a contenere le spinte alla frammentazione e a riconciliare i proietti.
Ogni forma esteriore suggerisce una corrispondente configurazione psichica. Il mandala produce rotondità e completezza. Disegnare mandala ha un effetto psicotropo, simbolicamente eutrofico. Dà una sensazione di pienezza e di centratura. Evita la frammentazione. Con il suo contorno solido contiene, ha un effetto di cerchiatura antipsicotica. Anziché chiamarla meditazione, l’osservazione del mandala potremmo dirla centratura o cerchiatura. Qualsiasi atto preciso concentrato su un oggetto ti tiene avvinto. Avvinto ad un sasso, ad un mantra, ad un punto, ad un mandala, ad una parte del corpo stirata mentre i polmoni dolcemente si dilatano e dolcemente si rilassano. Soprattutto legato al sé, come ad un molo solido e sicuro. Senza questo ancoraggio ad un oggetto o ad una sensazione, ci si sente fluttuanti, instabili, quando non, addirittura squadernati e dispersi.
Attratto dal centro del mandala, l’insieme dei frammenti converge rapidamente al nucleo della personalità da dove, compatto, il Sé spazia e si pone in feconde e solide relazioni.
Il mandala è anche simbolo della coniunctio, poiché la simmetria compone gli elementi in un bilanciamento che porta al centro; vederli contemporaneamente è vedere il centro.

In età avanzata Jung lasciò intendere che il mandala era per lui l’alfa e l’omega. “Sapevo che nel trovare il mandala – disse precisamente – avevo raggiunto il vertice [delle mie conoscenze]. Forse qualcuno ne saprà di più, io no”.
Il mandala è anche la rappresentazione del transfert, se per quest’ultimo intendiamo, come Jung, la relazione analitica. È il mandala a suggerirci di passare dalla compensazione alla congiunzione degli opposti, dall’alternanza alla contemporaneità, dalla separazione alla relazione terapeutica, dalla dissociazione all’integrazione.
È attraverso la relazione terapeutica che si forma la giusta relazione interna fra i contenuti della coscienza e quelli dell’inconscio. In altre parole la congiunzione con l’analista provocherà la congiunzione interna fra alcuni elementi che stanno nella coscienza ed altri, a loro opposti, che stanno nell’inconscio. Questi ultimi elementi, nella condizione di alternanza, irrompono ogni tanto, vengono a giorno attraverso il sintomo, per compensare l’atteggiamento unilaterale della coscienza: l’Ombra interviene per compensare l’Io, l’Anima per compensare la Persona, l’introversione per compensare l’estroversione, il femminile per compensare il maschile.
La coniunctio oppositorum
“Dove c’era la compensazione ci sarà la coniunctio.”
La relazione terapeutica è un confronto interpersonale; la relazione fra opposti psichici (coscienza e inconscio) è un confronto intrapsichico; il mandala è una rappresentazione grafica dinamica sia della relazione intrapsichica che interpersonale nel suo divenire, nel suo passare dalla funzione compensatoria all’unità degli opposti.
Esso non è solo una topica o un’anatomia della psiche. È una delle descrizioni più alte della relazione. La segue e la precede, la descrive e l’induce, la suggerisce e la provoca.
La relazione terapeutica è un confronto interpersonale; la relazione fra opposti psichici (coscienza e inconscio) è un confronto intrapsichico; il mandala è una rappresentazione grafica dinamica della relazione sia intrapsichica che interpersonale nel suo divenire, nel suo passare dalla funzione compensatoria all’unità degli opposti.
Il proprio mandala, il paziente deve conoscerlo da solo, disegnarlo da solo, colorarlo da solo, spingerlo avanti da solo. Scoprendo in questo la sua responsabilità.
Il processo d’individuazione
“Non so più quanti mandala disegnai allora, ma furono moltissimi. Mentre li disegnavo, ripetutamente mi si poneva il problema: «A che serve questo processo? Qual è la sua meta?». Ero costretto a seguire io stesso il processo dell’inconscio. Dovevo lasciarmi portare dalla corrente senza sapere dove mi avrebbe condotto … comunque vidi che … tutte le strade che avevo seguito … portavano … al centro. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è la via al centro, alla individuazione” (RSR, pag. 241). Sappiamo che per Jung il centro rappresenta il Sé. “Lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé … Non si può andare al di là del centro … il Sé è il principio e l’archetipo dell’orientamento e del significato. In ciò sta la sua funzione guaritrice. Il riconoscerlo per me voleva dire avere una prima intuizione del mio mito personale” (RSR, pag. 241).
Il Sé transpersonale
Sogno: Liverpool, nebbia, pioggia, fumo. Al centro una piccola isola, su cui sta un solo albero su cui splende il sole e che spande luce intorno a sé. I miei compagni non notano né l’albero né il sole e non capiscono perché uno svizzero possa esser venuto ad abitare qui. Io penso: “So bene perché si è stabilito qui”. (RSR, pag. 242).
Dopo il sogno Jung smise di disegnare mandala. Il sogno rappresentava il culmine di tutto il processo di sviluppo della coscienza. Una prima intuizione del suo mito personale: l’alchimia.
Per singolare sincronicità Wilhelm gli invia in quel periodo un testo ALCHEMICO cinese: Il segreto del fiore d’oro
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A3. CLUSTER DELLA CONIUNCTIO DI COSCIENZA E INCONSCIO, OSSIA DELL’INCESTO
L’alchimia
Dapprima Jung aveva conosciuto solo il livello, di sessualità e di Edipo, personale, familiare e biologico che Freud gli aveva indicato.
Freud aveva lavorato solo con isterici e ossessivi che gli avevano mostrato solo questo livello. Jung invece aveva lavorato con schizofrenici, e questa manifestazione psichica (non la sto chiamando malattia) svela un livello più profondo della mente rispetto all’isteria. Questi per mancanza di contorni sono dispersi in frammenti che funzionano come vere e proprie personalità. Queste vengono avvertite come voci. Queste voci raccontano di cose mitiche e divine. A differenza degli schizofrenici Jung aveva un Io forte, ma aveva la stessa capacità di scorgere in sé le stesse voci, gli stessi miti, lo stesso livello divino, senza esserne travolto.
L’ampiezza di questo livello mitico gli fa sentire stretto il livello sessuale, orgasmico, biologico e personale, limitato alla propria e sola zona genitale. Gli fa sentire che la libido è più estesa e che non si esaurisce nella sola sessualità personale. Gli fa sentire che l’Edipo non è solo banalmente personale.
Gli schizofrenici e il suo stesso inconscio gli mostrano che la libido è tutta l’energia psichica e che l’incesto ha anche un livello mitico, simbolico e divino.
Questo livello più ampio va cercato nell’inconscio collettivo, ponendoci come coscienza a confronto con le sue immagini.
Le immagini che incontro in questa ricerca vanno poi integrate con gli opposti che stanno nella coscienza come insegna l’alchimia.
L’alchimia procedeva per tre fasi e due movimenti:
materia prima unita > solve > elementi opposti separati > coagula > elementi di nuovo riuniti.
Jung chiama analisi il solvere e sintesi il coagulare.
Psiche unita e confusa > analisi > singoli elementi della coscienza e dell’inconscio a due a due opposti fra loro > sintesi > personalità unita e distinta
La forza che permetteva la sintesi o il coagulare, e che univa per affinità gli elementi opposti, per gli alchimisti era un elemento sessuale o nozze chimiche o nozze sacre. La sessualità, per gli alchimisti e per Jung, è potente, sacra, mistica, non un mero orgasmo personale e banale. Le nozze a loro sembravano il più chiaro e forte esempio di come due opposti, femminile e maschile, desiderino invincibilmente unirsi e di come l’unione di opposti dia nel figlio la sintesi più potente e perfetta.
Alchimia non è un processo chimico concreto di trasformazione materiale di piombo in oro, ma una sapiente metafora, la descrizione simbolica di un processo psichico interno. Parla del perfezionamento della materia, ma intende il perfezionamento dell’uomo. Un processo psichico che sfuggì del tutto al chimico del seicento, il quale davvero sperò di potere ottenere nella materia esterna quel miglioramento che in realtà egli desiderava per se stesso.
Oggi sappiamo che i forni e gli alambicchi dell’alchimista altro non dovevano essere, e oggi altro non sono, che la sua parola e sue mani di luce rivolte all’altro da sé per ottenere la sua trasformazione. La materia prima lavorata altro non è che la nostra persona grezza, l’uomo nella sua notte, da portare verso la luce.
Alchimia è il percorso dell’Eroe alla ricerca del tesoro nascosto, del sé, della pietra filosofale
Il luogo della mediazione
In quella che appare, per una visione statica, un’opposizione irriducibile, per una visione dialettica si dà, come possibilità latente non ancora percepita, un terzo polo disponibile per possibili operazioni di mediazione.
Fra i due opposti c’è dapprima separatezza, per divieto di contatto diretto con l’oggetto, a causa della pericolosità dell’altro da sé. Ma poi si scopre che si può sostituire quest’ultimo con il simbolo. Il simbolo permette la coniunctio oppositorum proibita dal tabù. L’unione del soggetto col simbolo (rappresentante dell’oggetto) è concessa. In terapia il simbolo è impersonato dall’analista. Analista che è analogo al padre, analogo alla madre. È l’analogia che consente il trasferimento da qualcosa di sconosciuto, potente, vago, inquietante, divorante a qualcosa di accessibile, lecito, accettabile.
Il terzo simbolico,
… il contrasto totale non conosce un terzo termine – Tertium non datur! La scienza si arresta ai confini della logica; non così la natura, che fiorisce anche lì dove nessuna teoria è ancora mai penetrata. La venerabilis natura non s’arresta davanti al contrasto, ma se ne serve per formare, dagli elementi avversi, un nuovo essere”. (Jung, 1946, La psicologia del transfert, Il Saggiatore,1974, pag. 189). Questo nuovo essere è l’essere che raggiunto la propria individuazione.
Senza individuazione, la coscienza rischia d’essere inghiottita da un lato nel conscio collettivo (sociale o culturale), dall’altro nell’inconscio impersonale, il collettivo naturale. Attraverso l’individuazione, la coscienza però diventa capace di un incontro con entrambi, in modo personale, singolare, individuato. Lo fa assumendosi il peso del proprio essere personali, conservando la stima di sé anche fuori dai ruoli e dalle attese, tollerando la tensione della minaccia che gli viene sia dalla natura-madre-inconscio, che dalla cultura-padre-società. Per diventarne capaci occorre sperimentarsi nel conflitto e diventare consapevoli della propria capacità di confronto con l’altro.
La congiunzione degli opposti,
Come mai il padre e la madre in seguito non sono più oggetti semplici e concreti, ma sono diventati, agli occhi del figlio e della figlia, numinosi e terribili? La qualità sconosciuta e inquietante, che rende temibili padre e madre, è la libido del figlio, che fa di un oggetto innocuo una “imago” archetipica. Ora questa imago, inavvicinabile a causa del divieto, dev’essere trasformata in un simbolo accessibile. Chi lo farà? Sarà la capacità riflessiva del figlio che trasporta la libido dall’oggetto al simbolo e poi s’interesserà solo di quest’ultimo. Il soggetto potrà congiungersi ora con il nuovo oggetto trasformato (Wandlungen) e divenuto “simbolo della libido” (Symbole der Libido). Dei due opposti uno solo compie l’opera (il soggetto-paziente) e uno solo diventa simbolo della trasformazione, Symbole der Wandlung, (l’oggetto-analista). La relazione fra i due non più antinomica, ma è divenuta dialettica perché “risolta” dal simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto. Risolta perché l’unione fra i due ora può avvenire. Si opera così la sintesi di soggetto e oggetto: ne risulta il Sé, il figlio della coppia bambino-genitore, colui che è completo. La madre diventa il femminile interno al figlio con cui il maschile del figlio può congiungersi.
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B – INTRODUZIONE AD UNA METAPSICOLOGIA DI C. G. JUNG
B1. Premesse
TRE MODELLI TEORICI. Anche la metapsicologia junghiana, come quella freudiana del 1915, può esser pensata, sia pure con un grosso lavoro di sistemazione, come la combinazione di tre modelli teorici distinti.
LA METAPSICOLOGIA FREUDIANA prevedeva, infatti, inizialmente solo tre modelli: topico, economico e dinamico. Solo nel 1920 Freud aggiunse ad essi il modello strutturale. Rapaport in seguito aggiunse i modelli genetico e adattivo portando così a sei le teorie freudiane dotate di coerenza interna.
LA METAPSICOLOGIA JUNGHIANA prevede modelli molto simili ai primi tre, che possiamo chiamare: energetico, dinamico e strutturale. Essi sono, ovviamente, fortemente intrecciati fra loro e concorrono, nel loro insieme, sia ad una descrizione unitaria della vita psichica e sia ad un’applicazione clinica integrata. Qui presenteremo prima le strutture, per definire sia i protagonisti del racconto clinico, e della vicenda esistenziale, sia i loro topoi; farà poi seguito la loro dinamica, per raccontare gli eventi che li vedono all’opera; infine parleremo dell’aspetto energetico ad essi sotteso, per capire il perché di quegli eventi. Affronteremo dunque nell’ordine il dove (topoi), il chi (strutture), il cosa (eventi) e il perché (spinte libidiche) dei personaggi e di quella vicenda, numinosa ed eroica, che è la metapsicologia junghiana. Solo successivamente avremo le basi per esaminarne anche le applicazioni cliniche e vedere come i conflitti, le imprese, i viaggi del soggetto si ripetano nella stanza analitica.
Il modello TOPICO E STRUTTURALE junghiano è caratterizzato da una serie di elementi: le quattro funzioni fondamentali della personalità, gli atteggiamenti o tipi psicologici, gli archetipi, i complessi o subpersonalità, i subsistemi Ombra, Io, Persona, Anima, Animus, Sé. Oltre a questi elementi (funzioni, tipi e strutture) ci sono tre diversi topoi: la coscienza, l’inconscio personale, l’inconscio collettivo. Questi topoi a volte vengono classificati anch’essi come istanze o sistemi.
Il modello DINAMICO ci fa conoscere le vicende dialettiche delle coppie polari di opposti (coscienza-inconscio, Io-Ombra, Persona-Anima), vicende che costituiscono il processo d’individuazione, ossia il cammino dell’Eroe, dalla terra delle Madri, attraverso il sacrificio del Padre, e infine il sacrificio stesso dell’Eroe.
Il modello ENERGETICO prevede una ridefinizione del concetto di libido (1912), d’energia attuale e potenziale, di gradiente psichico e livellamento energetico, d’annullamento della tensione e contenimento della tensione, di movimento progressivo e regressivo della libido, di conservazione dell’energia, d’entropia, di travaso d’energia, di simbolo, di trasformazione della libido, di Io mediatore, d’incesto simbolico (unione col simbolo anziché con l’oggetto), d’identità finale di soggetto e oggetto. La descrizione dell’ultimo modello può riassumere l’intera metapsicologia in una visione integrata e in un racconto unitario.
Le APPLICAZIONI CLINICHE della metapsicologia junghiana compendiano in sé gli elementi di tutti tre i modelli teorici in un percorso individuativo concreto in cui l’analizzando affronta la dialettica del male, la dinamica del transfert, l’evoluzione della propria coscienza, i sacrifici della trasformazione, l’ingresso nell’universale.
Il principio di indeterminazione clinica
In analogia col principio di Heisenberg che afferma che “non si possono misurare la posizione o la velocità di una particella senza alterarle”, possiamo dire che “non è possibile né curare un paziente senza influenzarlo, né sapere, sulla sua psiche, qualcosa di obbiettivo, ossia qualcosa di non alterato dalla soggettività del ricercatore”. Questo è un punto caratterizzante dell’epistemologia soggettivista junghiana.
Il principio empirico
Tenendo sempre nel debito conto il principio suddetto, si può affermare che Jung teorizzò solo quello che vide nei pazienti e in se stesso. La clinica venne, per lui, prima della teoria. Troveremo perciò aspetti clinici nell’esposizione teorica e aspetti teorici nell’esposizione clinica.
Gli ingredienti del racconto
L’INTRECCIO narrativo della metapsicologia. Abbiamo un’anatomia (strutture e topoi), dotata un suo funzionamento fisiologico (economia e libido), che vive delle vicende sue proprie (conflitti e dinamis). Alcune strutture, dotate d’energia, hanno attraversato in passato, e attraversano tuttora, dinamiche conflittuali. Tali vicende possono essere rivissute e riscritte ora in un setting diverso (quello psicoanalitico) e con una nuova dinamica strutturale ed economica.
Gli epigoni
Essendo la psicologia di Jung profondamente inserita nel problema della sintesi dei contrari, che tanto posto aveva occupato in filosofia, dai presocratici ad Hegel, ed avendo egli apprezzato tanto l’immobilità dei principi originari che l’evoluzione della coscienza, i suoi epigoni tendono ad interpretare tale duplicità come incoerenza e a dividersi in due tendenze più semplici, compatte e coerenti: quell’archetipica e quell’evolutiva. Non ci si meraviglierà dunque se siamo costretti ad accennare allora ai pilastri portanti di tale questione: quelli di phisis, di apeiron, di contrari, di essere, di divenire.
Phisis
PHISIS si presenta nella filosofia antica come termine non univoco: è essere, ma anche divenire. Se phisis indica l’apparire dell’essere, include anche il senso del nascere e del crescere. La phisis è eterna, mentre ciò che si trasforma sono le sue affezioni. Dal nulla non nasce l’essere. L’essere e il nulla (vedi Sartre) sono i due termini fondanti della filosofia antica. Ma insieme con essi c’è un terzo fattore: l’identità del diverso, il principio (arché) da cui le cose si generano e in cui si dissolvono. L’idea del terzo in Jung è molto importante perché gli consente di uscire dalla trappola dell’antinomia e del conflitto.
L‘identità finale
Tra l’essere e il nulla vi è un terzo fondamentale: l’opposizione, l’antitesi, la differenza. Ma, proprio perché diversi, i contrari approdano, alla fine del processo, nell’identità. Identità finale, dice Hegel, di soggetto e oggetto. Identità finale, anche, di essere e divenire.
C’è un solo junghiano!
L’aggettivo JUNGHIANO si riferisce qui a JUNG o ai suoi seguaci? All’inizio non abbiamo scritto “metapsicologia junghiana”, ma “di Jung” per segnalare che non è la metapsicologia dei suoi discepoli. Jung era solito dire che non si doveva o non si poteva essere junghiani. Diceva: “C’è un solo junghiano e quello sono io”. Non dobbiamo imitare il maestro, ma solo cercare quello che lui cercava. Si ripaga male il maestro se si rimane sempre scolari. Chi si mette sulle orme di Jung, può farlo solo da principio per poi lasciare nuove impronte: le proprie. Non esistono analisti ortodossi. Jung cercava il proprio mito. Chi vuol essere seguace di (ossia seguire) Jung cerchi, come lui, il proprio mito, che sarà certamente diverso da quello del Maestro. Per questa via è naturale che l’allievo giunga anche a principi e tecniche abbastanza diversi da quelli del pioniere. In definitiva, anche se nel prosieguo di questa sinossi useremo per semplicità il termine junghiano, quanto diremo dovrà essere attribuito solo al caposcuola, anche se saranno presenti inevitabili correzioni apportate dall’esperienza e dal tipo psicologico dell’estensore. Le selezioni del materiale, da lui operate, sono, infatti, del tutto arbitrarie e affatto personali.
Il mito di Jung
È il mito della “pietra ejecta nella via” che diviene pietra angolare. Il mito quindi dell’alchimia e dell’antica gnosi. Animato da spirito faustiano non si accontenta della propria condizione, ma ne insegue eroicamente una più ampia e completa.
Metodo costruttivo, prospettico, teleologico
Ha caratteri opposti rispetto al metodo riduttivo-causale freudiano, che riconduce il materiale psichico a ciò che è già noto, consegnandolo così al sapere. Volendo consegnare il materiale al pensare, anziché la sapere, Jung inaugura in psicoterapia la proposta di una interrogazione continua (reciprocità dialogica) di ciò che il soggetto si trova dinanzi. Non solo dell’inconscio che sta davanti alla coscienza (livello intrapsichico), ma anche del paziente che sta di fronte all’analista (livello interpersonale). Ne consegue la reciprocità e pariteticità dell’incontro. Sia a livello intrapsichico (parità fra coscienza e inconscio sia nel paziente che nell’analista) che interpersonale (fra paziente e analista). Alla radice dell’interrogazione sta un “non so”; si mette perciò tra parentesi ogni psicologia della risposta. Il materiale inconscio è qualcosa di non ancora noto e rappresentazione di un futuro atteggiamento del soggetto. L’inconscio è fertile matrice d’ogni sapere futuro.
Funzione trascendente
È il lavoro dinamico (o attività, operazione), che compie il dialogo fra coscienza e inconscio, di far slittare la linea di confine fra i due. Nel dialogo viene trasceso il confine fra ciò che è conscio e ciò che non lo è. Dopo questo scorrimento si ha una nuova coscienza e un nuovo inconscio. Le distinzioni già date non valgono più, ma ne nascono di nuove.
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B2. Il modello TOPICO, STRUTTURALE E FUNZIONALE
Archetipi
Analoghi alle Idee platoniche o alle categorie a priori kantiane, gli arche-tipi junghiani sono tipi arcaici o primigeni, immagini universali presenti nell’uomo fin dai tempi più remoti. Immagini primordiali, dominanti, disposizioni ereditarie, programmi, capaci di costellare l’esperienza secondo schemi innati. Conosciamo gli archetipi dai miti; e ne riscontriamo la presenza nelle fantasie degli psicotici. Essendo gli archetipi meno presenti o meno chiari nelle fantasie nevrotiche, Freud e Adler non ebbero la stessa possibilità empirica di osservarli frequentemente come Jung ebbe al Burgholzi. Si tratta di forme tipiche dei modi di pensare e di agire dell’uomo, e quindi una possibilità innata di rappresentazione che in quanto tale presiede all’attività immaginativa. Il termine è tratto dalla filosofia, dove ricorre per indicare il modello, l’esemplare originario o, semplicemente, l’originale di una serie qualsiasi. Jung ammette di aver tratto il termine da Platone, che “per primo pose in un luogo celeste le idee di tutte le cose, ovvero quei modelli originari o Urbilden” considerati più reali delle cose stesse. Nella topologia psichica, gli archetipi sono posti da Jung nell’inconscio collettivo. Ovverosia, connessa all’ipotesi degli archetipi è l’altra ipotesi della presenza nella psiche umana di un “inconscio collettivo” che ne sarebbe il depositario. Si può evidenziare qui quanto sia presente in Jung un’aspirazione di tipo olistico e onnicomprensivo, che lo porta verso la costruzione di una psychologia perennis, una psicologia sine tempore. Egli annuncia perciò la presenza nella psiche umana di “immagini” e “disposizioni alle immagini” che hanno un carattere immutabile, universale e imperituro.
Il mito
Per decine e decine di millenni l’uomo è guidato dal mito, che, per chi ha preceduto Talete, non è invenzione fantastica ma rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo. Racconto anonimo che è parte di un corpo di tradizioni oralmente tramandate tra i vari membri di una specifica comunità. Come il Vico Jung considera il mito come una forma autonoma di pensiero e di organizzazione cognitiva del mondo. Esso costituisce ponti simbolici di fronte a quelle che altrimenti sono fratture radicali in cui la psiche umana non può che sprofondare: e cioè nei miti sono inscritte in codice quelle conoscenze e competenze che ogni uomo in quanto tale ha, da sempre e ovunque, sperimentato e continuerà a sperimentare. Jung considera il mito come una forma di pensiero autonoma, e quindi non secondaria né subordinata rispetto alla conoscenza razionale che a essa è, anzi, intrecciata. Il materiale mitologico è inteso da Jung come emblema dell’attività psichica e in particolare come dimostrazione e approfondimento dell’ipotesi intorno all’inconscio collettivo e ai relativi archetipi. Secondo Jung lo studio comparativo dei differenti miti risulta importante al fine di ritrovare quelle convergenze tematiche e quei motivi HotwordStyle=BookDefault; ricorrenti (vita, morte, abbandono, separazione, incesto, regressione, frantumazione, salvezza, creazione, distruzione ecc.) che lo psicoterapeuta incontra nel suo lavoro, e quindi per comprendere quanto lo stesso inconscio offra simbolicamente al paziente, di fronte all’impossibilità della sua coscienza di assegnare, da sola, un senso a quello che è un momento specifico dell’esistenza. Con queste implicazioni psicoterapeutiche, laddove si assuma soprattutto il fatto che la cura psicologica passa attraverso l’accordare una certa realtà all’immaginazione, si comprende quanto il senso dell’immenso lavoro di ricognizione dei miti sia teso alla ricerca dei significati “simbolici”, e quindi finalizzato a dischiudere la funzione immaginativa dell’inconscio.
La verità del mito
Il mito ci è utile in quanto può avanzare un diritto alla verità. Il logos lascia delle fratture che il mito può colmare. Nella pienezza e nel tramonto del mito nasce l’idea di un sapere innegabile da parte di uomini e dei. Circa alcune cose si può raggiungere un sapere che è stato chiamato sophia, logos, alétheia, epistéme. Un sapere che appartiene alla luce, che sta al di fuori dell’oscurità. Ma alcune cose come sappiamo restano nell’oscurità e possono essere raggiunte dal logos. Inserito in una psicoterapia il mito offre ancora una volta alle fratture del logos, come nel passaggio fra Omero e Talete, una possibilità di pensare. “La symbole donne a penser”, ci istruisce Ricoeur. Del resto anche nella fisica contemporanea si abbandona la pretesa del logos. In questo modo la scienza ritorna al mito e la filosofia è una parentesi nella lunga storia del mito.
Natura archetipica di ogni complesso
La nozione di archetipo si lega alla nozione di complesso. Questo termine (vedi più avanti) fu coniato da Jung? e divenne poi di uso comune in psicoanalisi. Jung aveva scoperto la “teoria dei complessi” attraverso gli “esperimenti sulle associazioni”, ma era arrivato poi a formulare l’ipotesi della natura “archetipica” d’ogni complesso. In questa teoria non si nega però la formazione del complesso anche attraverso l’esperienza concreta e l’impatto problematico dell’individuo con gli altri individui – soprattutto nella prima infanzia – ma tale formazione si configura come dovuta all’attività di un a priori archetipico.
Un complesso è una subpersonalità, ossia una personalità, parziale sì, ma autonoma e indipendente, costituita da un nucleo (tipicamente un archetipo), metaforicamente carico e capace di attrarre elementi, e da elementi da lui già attratti e a lui legati con un forza costellante in un’associazione che possiamo, per analogia con le stelle, chiamare costellazione. L’insieme del disegno sottostante è una costellazione. Al centro c’è un nucleo carico dotato di potere attrattivo. Alla periferia vediamo gli elementi associati o legati al nucleo da forze rappresentate dalle frecce. Ogni complesso è una personalità con convinzioni rigide, ripetitive e viscose su un settore specifico. Ma essendo parziali si può definirle subpersonalità.
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Subpersonalità
Non si può parlare di una sola personalità, bensì dobbiamo pensare all’esistenza di varie personalità. È solo la maggiore permanenza di una subpersonalità a dare l’idea di una personalità unica ordinaria e permanente. Gli elementi psichici che danno luogo a subpersonalità non si agglutinano a caso, ma si organizzano attorno ad un attrattore (un nucleo con proprietà costellanti) formando un complesso, che nel caso della subpersonalità è particolarmente completo e articolato. Giova precisare che mentre ogni subpersonalità è un complesso, non ogni complesso è una subpersonalità.
Il piccolo popolo
La teoria dei complessi è importante perché per Jung sono complessi tutte le seguenti strutture: l’io, l’es, il superego, l’anima, l’ombra, la persona, il sé. Mentre i primi tre sono stati collocati graficamente nel secondo schema topico freudiano, l’io e gli ultimi quattro figurano in varie topiche junghiane. Jung chiamò tutte queste subpersonalità col nome di “piccolo popolo”. Facciamo un esempio grafico: una costellazione d’elementi esagonali costellata attorno all’archetipo dell’esagono.

Archetipo dell’esagono
Immaginiamo il concetto formale di esagono. Attratti dall’idea d’esagono possono raggrupparsi attorno a lei esagoni reali a formare una costellazione esagonale regolare. La figura che vedete dovete pensarla come costituita non da sette oggetti concreti, ma da sei oggetti esagonali, contenitori o scatole vuote, disposti attorno ad un vuoto di forma esagonale, che rappresenta l’idea di esagono. Un’idea di esagono attira esagoni concreti, recettori, siti da riempire con elementi esagonali solidi, contenitori esagonali che attirano contenuti esagonali. Solo l’esagono si presta a questa completezza e chiusura radiale, perché è l’unico poligono con angolo uguale a un terzo di angolo giro. In questo senso possiamo considerarlo un archetipo naturale.
Le TOPICHE disegnate da JUNG sono state però molte, davvero troppe, e contraddittorie a confronto delle due freudiane. Jung passò la vita a fare disegni, autoritratti, mandala.
Qui ne presenteremo una soltanto, quella che si presta più delle altre ad introdurre nel discorso i componenti strutturali che ci servono per la nostra esposizione. La possiamo vedere nella grafica sottostante in cui ne abbiamo fuse insieme due non contraddittorie mutuate da J. Jacobi, 1939, p. 149.

L’Io si rapporta con l’inconscio (mondo interno) per il tramite di strutture dell’Anima e col mondo esterno per il tramite di strutture della Persona. L’Io percepisce i mondi esterno e interno per il tramite di quattro funzioni: pensiero, sentimento, intuizione, sensibilità o sensazioni. Vediamo di definire le QUATTRO STRUTTURE e le QUATTRO FUNZIONI. Nel loro insieme esse ci descrivono metaforicamente l’anatomia e la fisiologia della psiche.
Io
La dottrina dell’Io segna una grande differenza fra Freud e Jung. In Jung l’io è conscio, in Freud è in parte inconscio. L’Io è due cose per Jung, un io conflittuale e un io mediatore fra se stesso e l’oppositore. Così abbiamo:
a) Io come insieme di rappresentazioni consce che stanno al centro della coscienza e al contempo ne rappresentano la totalità; a questo Io, a queste rappresentazioni consce, si contrappone l’Ombra, il Non-Io, l’Alter-Ego,
b) Io come funzione mediatrice fra Io e Ombra, fra coscienza e inconscio, fra individuale e collettivo.
Persona
Termine latino indicante la maschera che l’attore teatrale, sia comico che tragico, appoggiava al proprio volto nel corso della recitazione. Lo stesso termine latino ricorre nel testo junghiano per designare indifferentemente: a) l’immagine che l’individuo mostra all’esterno, e in quanto tale uno degli aspetti più esteriori dell’individuo stesso; b) il ruolo o lo “status sociale” dell’individuo nelle relazioni con il mondo; c) l’adattamento dell’individuo a ciò che è collettivo, e cioè l’atteggiamento che l’individuo mostra in risposta agli altri e alle situazioni date, per adattarsi all’ambiente e agire in esso; d) l’individuo definito attraverso i rapporti che intrattiene con gli altri, e quindi l’individuo nella sua, per così dire, “visibilità” agli altri; e) l’insieme degli atteggiamenti HotwordStyle=BookDefault; convenzionali dell’individuo in quanto appartenente a una tradizione, per cui si evidenzia nei differenti pregiudizi che l’individuo manifesta rispetto agli altri, colti, a loro volta, come appartenenti ad altre tradizioni; h) l’involucro delle modalità espressive, dei sentimenti e dei pensieri di cui l’individuo è rivestito. Jung afferma: la Persona è “maschera che simula [soltanto] l’individualità, che fa credere agli altri che chi la porta sia individuale (ed egli stesso vi crede), mentre non si tratta che di una parte rappresentata in teatro nella quale parla la psiche collettiva”.
Anima
L’atteggiamento che la coscienza assume nei riguardi dell’inconscio, e più in generale l’atteggiamento che il soggetto assume nei riguardi del proprio mondo interiore e della propria vita privata, che è tecnicamente chiamato “atteggiamento interiore”. Uno specifico complesso funzionale della psiche, dunque, che mette in relazione la coscienza con l’inconscio. In questo senso l’anima è intesa in relazione complementare con ciò che è tecnicamente chiamato “atteggiamento esteriore” o Persona: e cioè con l’atteggiamento che, viceversa, l’individuo assume abitualmente rispetto al mondo esterno e alla sua vita pubblica.
Ombra
L’altro lato della personalità, e perciò quella parte oscura della psiche, in quanto tale inferiore e indifferenziata, cui, in vario modo, è necessariamente rinviata (e operativamente rinviabile) la parte superiore e differenziata della psiche stessa durante il processo di individuazione. L’ombra rappresenta solo qualcosa di inferiore, primitivo, inadatto e goffo e non è male in senso assoluto. Essa comprende fra l’altro delle qualità inferiori, infantili e primitive, che in un certo senso renderebbero l’esistenza umana più vivace e più bella; ma urtano contro regole consacrate dalla tradizione”. Pertanto, e più in generale, il termine indica un’unità complessa dotata di una vitalità autonoma che è fondamentalmente il negativo di ciascun individuo, che l’uomo stesso può soltanto percepire sentimentalmente e intuitivamente; e perciò può farne esperienza.
Le funzioni fondamentali
Per la specifica teorizzazione delle funzioni fondamentali, è supposta una costante e inevitabile relazione tra le attività percettive (sensazione e intuizione) e quelle astrattive (sentimento e pensiero). Poiché l’immaginare è inteso come una forma aspecifica delle attività psichiche fondamentali, viene rilevato come l’immaginazione non possa che trovarsi intrecciata con una delle funzioni fondamentali
Pensiero
L’attività intellettuale distinta, da un lato, dall’attività pratica, e dall’altro dalla sensazione, dall’intuizione e dal sentimento. In quanto tale, il termine indica convenzionalmente una delle quattro funzioni della psiche. Funzione attraverso la quale la coscienza si correla sia al mondo esterno che al mondo interno e quindi anche all’inconscio, all’Anima, alla Persona, all’Ombra, al Sé.
Sentimento
Il sentire è considerato una delle quattro funzioni fondamentali con cui la psiche entra in relazione con il mondo. Proprio perché è inteso come un processo discriminativo e valutativo, e quindi produttivo di un giudizio su qualcosa, il sentire è classificato insieme al pensare. Con il pensare, esso costituisce infatti l’asse della coppia delle funzioni psichiche razionali che è intersecato dall’altro asse della coppia delle funzioni psichiche irrazionali, quali sono quelle del percepire e dell’intuire. Distinguendosi nettamente dalle altre funzioni, seppure rimanendovi in vario modo collegata, la funzione del sentire si sviluppa e viene a costituire un individuo che nella sua relazione con gli oggetti si orienta, per l’appunto, attraverso di essa, e in questo caso si parlerà di quell’individuo come di un tipo di sentimento. A seconda che egli sia mosso da un atteggiamento privilegiante la relazione con gli oggetti interni o con quelli esterni, se ne parlerà come di un tipo introverso con funzione sentimento o di un tipo estroverso con funzione sentimento.
Intuizione
È una delle quattro funzioni psichiche fondamentali, insieme al pensiero, al sentimento e alla sensazione. Con questo termine viene specificamente indicata la percezione inconscia attraverso la quale vengono contemporaneamente in evidenza i contenuti subliminali del soggetto e la cosiddetta “essenza” dell’oggetto. In questo senso un’eventuale qualità intuitiva assegnata alla conoscenza la rende indiscutibile e quindi, se si vuole, primitiva o divina. In questo senso l’intuizione, seppure non permetta di distinguere mai tra ciò che è reale e ciò che è irreale, è intesa come la funzione psichica che ci insegna a vedere le cose, e quindi gli oggetti che poi (per un’altra via o per altri organi psichici) risulteranno o reali o irreali. Compito generale dell’intuizione è “trasmettere le percezioni per via inconscia”. L’intuizione è, come la sensazione, una caratteristica della psicologia infantile e primitiva. Essa fornisce al bambino e al primitivo, di contro al forte risalto posseduto dalle impressioni sensoriali, la percezione delle immagini mitologiche, stadi preliminari delle idee (…) L’intuizione si comporta nei riguardi della sensazione in senso compensatorio ed è, al pari di questa, la matrice da cui prende le mosse lo sviluppo del pensare e del sentire come funzioni razionali. L’intuizione è una funzione irrazionale, quantunque molte intuizioni possano in seguito essere scomposte nelle loro componenti così che anche il loro prodursi può essere messo d’accordo con le leggi della ragione.
Sensazione
Per quanto riguarda la dinamica della psiche, la sensazione è intesa come una delle fondamentali funzioni. Per quanto riguarda invece la tipologia psicologica, viene costituita una classificazione secondo la quale sono individuati soggetti che vengono detti tipi sensoriali perché nei loro rapporti col mondo esterno e interno privilegiano, rispetto alle altre funzioni psichiche, quella della sensazione. Sensazione e intuizione rappresentano per Jung una coppia di opposti ovvero due funzioni che si compensano a vicenda come il pensiero e il sentimento.
I tipi psicologici
Jung propone una teoria capace di integrare i complessi che si attivano nel settore della sessualità (campo di Freud) e quelli che si organizzano nel campo del potere (Adler). Esempi dell’uno e dell’altro: complesso di Edipo e complesso d’inferiorità. Entrambi i pensatori isolano famiglie di complessi, ma le innalzano a principio esplicativo di tutta la psiche. È come se ogni autore avesse un daimon che lo porta a vedere la vita da una prospettiva o dall’altra. Jung nel 1913 espose una teoria dei Tipi psicologici come espediente interpretativo delle differenze insorte fra Adler e Freud. In quella sede annunciò la legittimità, sia dell’interpretazione della vita psichica proposta da Freud, sia di quella proposta da Adler. La differenza fra le due dipendeva unicamente, secondo il Jung del 1913, dal fatto che Freud e Adler erano due tipi psicologici diversi.
Coscienza
La COSCIENZA individuale è solo il fiore o il frutto di una stagione, germogliato dal perenne rizoma sotterraneo, e che armonizzerebbe meglio con la verità se tenesse conto dell’esistenza del rizoma, giacché l’intreccio delle radici è la madre di ogni cosa.
Centratura della coscienza
Partiamo dalla topica e prendiamone in considerazione solo l’areola centrale con suo il punto di centro, l’Io. L’area della coscienza è abitata da contenuti transitori e mutevoli (funzioni): immaginazioni, pensieri, impulsi, desideri, intuizioni, emozioni, sentimenti, sensazioni, volizioni. Nell’uomo comune essi sono disordinati e in conflitto l’uno con l’altro. L’uomo comune spesso s’identifica con questi contenuti.
Il costituirsi di un centro (Io) che “contiene”, osserva, coordina e dirige tali contenuti, porta ad un’armonizzazione di queste funzioni, tutte necessarie ad una personalità unitaria e completa. Questo centro non è transitorio come gli altri contenuti di coscienza. È invece stabile e fermo, e dà al suo portatore, una volta divenuto consapevole di essere centrato, il senso della sua identità d’individuo. Lo stesso discorso relativo ai contenuti di coscienza può farsi anche per le subpersonalità e per i complessi (che sono incosnci). Il centro può disidentificarsi dai singoli contenuti. Può togliersi quando vuole da uno stato di identificazione coatta e, allo stesso modo, decidere, quando vuole, di identificarsi, momentaneamente e liberamente, di nuovo con essi. Possiamo chiamare il processo di centratura anche con i nomi di processo di individuazione, autorealizzazione, realizzazione del Sé.
Inconscio personale
Jung usa inconscio come aggettivo per significare qualcosa di escluso dalla coscienza e come sostantivo per indicare un luogo della psiche. Distingue due livelli d’inconscio: quello personale e quello collettivo. Quello personale è il ricettacolo dei contenuti espulsi dalla coscienza in seguito all’interazione fra il soggetto e la società. Questo materiale deve restare separato dall’Io.
Inconscio collettivo
È il luogo degli archetipi, che si manifestano nei sogni, nell’immaginazione attiva, nei miti, nelle fiabe, nelle religioni. Gli archetipi interagiscono con l’ambiente formando immagini numinose. Sono suoi elementi, l’Ombra collettiva (credo che si possa parlare anche di un’Ombra personale), l’Anima, l’Animus.
Sé
Centro e totalità della intera personalità, che comprende sia l’Io che l’inconscio personale, gli archetipi e altri contenuti collettivi.
Gli istinti primari
Nell’800 era consolidata l’idea che esistessero tre istinti primari: la propagazione della specie, la conservazione della vita, l’ascesa dello spirito. Freud e Adler studiano di preferenza i primi due esasperandoli e puntando, il primo, sulla sessualità, e il secondo, sull’aggressività e la volontà di potenza.
L’ascesa dello spirito
Jung accetta l’uno e l’altro nel proprio sistema, ma chiede il completamento del progetto umano puntando anche sull’ascesa dello spirito e caratterizza la sua opera ponendo l’enfasi su questo punto. Le tre vie possono essere percorse assieme. Jung rifiuta il postulato che uno di questi tre fattori abbia il predominio nel percorrere la via terapeutica. L’ascesa dello spirito è un istinto elementare, non derivando da alcun altro istinto. È un istinto prettamente umano, a differenza degli altri due che sono propri di tutti gli animali. Nell’uomo dunque può nascere una dicotomia, sconosciuta all’animale, fra due istinti: uno spirituale e uno naturale. Ma Jung come vedremo non conosce dicotomie ma sintetizza sempre le coppie di contrari.
Un atteggiamento empirico
Jung ha qui un atteggiamento empirico; come fa per conscio e inconscio, che considera aggettivi e non sostantivi, anche per l’istinto preferisce l’aggettivo istintivo, limitandosi a considerare fatti o atti istintivi, che sono gli unici empiricamente riscontrabili.
Strutture o metafore?
Jung userà anche le metafore, ma non cadrà mai nell’illusione freudiana di credere che una metafora sia una struttura. Es, Io, Superego, Conscio, Inconscio sono metafore metapsicologiche. Jung sa di fondare una psicologia soggettiva, pur quando cerca di attenersi ai fatti empirici. Naturalmente questo errore va attribuito solo a Freud, non ai freudiani contemporanei, che sono ben consapevoli di questo (cfr Thoma e Kakele).
Essere o divenire?
Gli archetipi sono (immutabili). La coscienza diviene, si amplia, ascende. Il sé c’è da sempre e la coscienza lo deve solo trovare, vedere, integrare? Oppure, nel suo lavoro di conoscenza, lo costruisce? Il cammino verso il sé non è un cammino del sé. Ciò che diviene non è il sé, ma la liberazione o il rinvenimento del sé. La prodigiosa avventura della ragione è quella di tentare di ricostruire le tappe del divenire della coscienza. Fra gli allievi di Jung alcuni sono più interessati al divenire della coscienza che si attua nella dialettica con l’inconscio; altri sono più attenti alla dotazione eterna dell’essere. Possiamo chiamarli evolutivi ed archetipici. Una terza possibilità prevede di accogliere, come fece Jung, entrambi i punti di vista: li possiamo chiamare classici. È una riedizione di antico problema filosofico.
Parmenide, Democrito, Aristotele, Hegel
Nell’antica filosofia greca l’Essere (dato ab initio e per sempre) è contrapposto al mutamento o Divenire. Secondo Parmenide non esiste altro che l’eterno Essere. Ciò che non è non potrà mai essere e ciò che è non potrà scomparire. Non ci può essere passaggio tra essere e nulla. Il mutamento è illusorio. Secondo Buddha al contrario tutto è impermanente e l’essere è illusorio. Anche Democrito la pensa così: le cose sono soggette al cambiamento e al moto. Per Platone la materia diviene, mentre le Idee sono. Aristotele sostenne poi che l’Essere è eterno, ma si manifesta solo nel mutamento. Hegel infine sostenne che essere e divenire sono momenti dello stesso processo e che ciascuno di loro deve negare l’altro per inverarlo.
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B3. IL MODELLO DINAMICO
Le topiche e le strutture situano e definiscono coppie di OPPOSTI IN CONFLITTO: coscienza e inconscio, io-ombra, anima-persona. Fra gli opposti c’è tensione, ossia differenza di potenziale o di livello, ossia attitudine al lavoro, disponibilità di forza e possibilità di movimento.
La continua azione di forze e il continuo movimento creano una storia dialogica e una DIALETTICA DINAMICA fra i due della coppia di opposti. In questa dinamica ci sono in gioco lotte, attaccamenti, separazioni, individuazioni, conciliazioni.
Io e Non-Io
L’uomo nasce come soggetto nel momento in cui acquista conoscenza del proprio differenziarsi dalla vita pulsionale. Egli scorge che non è più identico alla sua istintività, che può distaccarsi, distinguersi, da un inconscio che diviene così un non-io.
Conflitto e mediazione
Il non-io minaccia sempre l’io nella sua posizione di soggetto in quanto può irrompere in ogni momento nell’io indipendentemente dalla sua volontà e dal suo consenso. Questa situazione presenta due pericoli limite per l’io: se si difende troppo (resistenza) aliena da se stesso una parte di se morendo alla vita affettiva e irrigidendosi nella razionalità; se non si difende affatto cade in balia delle pulsioni. Sappiamo però che una delle possibilità dell’io è quella di porsi come mediatore fra i contendenti trasformando l’antinomia in processo dialettico.
Momenti sacrificali
Questo processo, questo percorso, comportano delle oscillazioni e dei vantaggi momentanei a favore dell’uno o dell’altro dei contendenti. L’Io dev’essere quindi pronto a dei sacrifici, a dei rovesciamenti dialettici provvisori e temporanei.
a) SACRIFICIO DELLA RAZIONALITÀ vs irrazionalità. Il primo sacrificio lo deve fare l’atteggiamento razionale dell’io per aprirsi a ciò che si presenta come non razionale ed accettare così nuove possibilità di vita, per aprirsi all’imprevedibile e rinunciare a visioni precostituite. In questo frangente l’Io non avrà più il sostegno dei suoi valori e dei suoi simili. Può seguirne uno smarrimento che l’io deve essere disposto ad accettare oppure al contrario la sensazione di una libertà senza limiti.
a-b) RISCHIO DELL’IRRAZIONALITÀ. Nel secondo caso si presenta a questo punto il rischio della seduzione a realizzare senza limiti questa pienezza d’esistenza, che si presenta come visione di una vita paradisiaca, e a tornare ad esser tutt’uno con l’inconscio. Cedere a questa seduzione porta alla perdita dell’esserci. È necessario allora porre mano ad un altro sacrificio, quello dell’appagamento immediato della trasformazione intrapresa.
b) SACRIFICIO DELL’IRRAZIONALITÀ (e dell’immediatezza della trasformazione) vs canalizzazione. L’irrazionalità deve attendere e non realizzarsi in modo esclusivo e inflazionato. L’irrazionalità dovrà canalizzarsi in mete socialmente buone. In questa fase l’io impara a dominare le proprie passioni. Ma anche questo nasconde un pericolo: che l’io inorgoglisca della canalizzazione.
b-c) RISCHIO DELLA CANALIZZAZIONE. Può arrivare a sentirsi padrone delle passioni e a negare in lui la presenza dell’inconscio come soggetto attivo. Può sentirsi onnipotente. È necessario un nuovo sacrificio
c) SACRIFICIO DELL’ONNIPOTENZA. Solo quando non si sente onnipotente può aprirsi di nuovo all’inconscio senza pericoli. Ma che cosa consente all’uomo di rinunciare all’onnipotenza? Il Sé. Solo il prendere atto di una dimensione universale rispetto alla quale l’io è piccolo e relativo: una dimensione universale che vive in lui e lo racchiude da ogni lato.
oltre c) VERSO L’INDIVIDUAZIONE. Tre momenti sacrificali dunque: del razionale, dell’irrazionale e dell’onnipotenza sintetica. A questo punto l’io è individuato in quanto ha accettato il sacrificio della propria onnipotenza. L’io aveva la libertà di scegliere come trattare il conflitto fra coscienza e inconscio: o assumerlo rischiosamente in sé e tentarne la sintesi o rifiutarlo e restane alienato. L’io conserva un ruolo decisionale: può fuggire richiudendosi, può diventare un onnipotente creatore di mondi, può lasciare umilmente che il simbolo operi in lui. L’angoscia dell’impresa è provocazione e dovere.
Aspetto evolutivo
Lo sviluppo e il divenire della coscienza avvengono solo nel ripetuto confronto con l’inconscio e tramite la possibilità del simbolo di essere accessibile al soggetto. Il simbolo è analogo all’oggetto proibito (inconscio, istinto) ed esprime in modo equivalente la libido, ma il dialogo con lui è consentito e può avvenire l’incesto e l’individuazione. Per effettuare quest’evoluzione dialettica l’io deve prendere le distanze da se stesso e dal sé per porsi come soggetto riflessivo del proprio divenire.
Aspetto ermeneutico
La presenza del simbolo rimanda all’ermeneutica, operazione necessaria per comprendere di quale oggetto istintuale il simbolo è sostituto. Nel proprio percorso individuativo la sintesi è raggiunta attraverso un’attività simbolica, sostitutiva di un’attività istintuale. Poiché l’istinto è il regno delle madri il simbolo è spesso un sostituto della natura. L’argomento sarà ripreso nelle parti energetica e clinica.
Il cammino dell’eroe
Frobenius e Karényi vedono nei miti la prima conoscenza che l’uomo ha di sé. In effetti le avventure mitiche sono il racconto di eventi psichici originari, archetipici. I miti sono cosmogonie, ma anche psicocosmogonie, in quanto l’eroe conoscendosi si costruisce. Jung vede nel percorso del paziente lo stesso processo eroico di costruzione-individuazione di sé. I simboli mitici, archetipici, sono analogie della libido, la rappresentano e la formano. Conoscere è costruire. Rappresentare è trasformare. L’intero ciclo di rappresentazioni mitiche trasforma il paziente. L’essere del paziente si trascende nella conoscenza di sé. Il simbolo dunque è il mediatore sia della conoscenza che della trasformazione.
Il sacrificio della madre
Il padre c’impone che la madre istintuale venga sacrificata. Jung ci mostra che il simbolo ha il potere di fare questo, e lo fa raccontandoci un rito dei Wachandi australiani. In primavera gli uomini scavano nella terra una buca a forma di vagina, la circondano di fronde e, dopo una danza, riempiono la buca di seme. La buca conserva i caratteri e la forza d’attrazione della vagina, ma non è oggetto di divieto. La semina è un’attività analoga ma diversa da quella puramente istintiva. Non essendo oggetto di tabù si presta ad essere simbolo mediatore.
Il sacrificio del padre
Il padre, come legge che vieta l’incesto, cioè la regressione-ritorno della libido del figlio nell’inconscio-madre-natura, simboleggia lo spirito, inteso come altro polo dialettico rispetto alla madre-inconscio-materia-natura. Nel percorso d’individuazione ci sono successivi momenti sacrificali: fasi in cui occorre sacrificare la madre, intesa come eccesso d’inconscio, e fasi in cui occorre sacrificare il padre, inteso come collettivo sociale fissante e inibente. Una volta individuati potremo confrontarci vantaggiosamente con entrambe le forme di Non-io ed emergerne con una coscienza ed un Io arricchiti. Ciò che inibisce e impoverisce il figlio, arricchisce l’eroe possessore del simbolo.
Il sacrificio dell’io
Il sacrificio dell’io a favore del Sé. L’hybris dell’Io è di aver identificato tutto con la propria coscienza. Quest’ultimo sacrificio è dunque il riconoscere la relatività dell’Io. Inglobando nei suoi viaggi anche il Non-io con cui si è confrontato, non rimane solo coscienza e quindi il suo baricentro si sposta. Il centro, rappresentato dall’Io, lentamente si sposta: alla fine non è più l’Io, là dov’era, ma il Sé. Un sé che accoglie anche elementi collettivi (sociali e archetipici) ossia un sé transpersonale
Il cammino ascendente
Ad ogni successivo incontro con l’inconscio l’Io viene arricchito, si espande e s’innalza nella topica lungo il cammino iniziatico; si possono vedere nella figura le successive posizioni dell’Io. Dopo aver visto e integrato nuove cose, l’Io emerge, da ogni successivo confronto col Non-io, diverso, più completo. Se un archetipo viene a far parte delle nostre conoscenze il nostro Io si amplia, si evolve. Si saldano, con questa ultima assunzione, anche i punti di vista evolutivo e archetipico del post-junghismo. Là dove c’era l’inconscio ci sarà l’Io, ma intanto l’Io non sarà più lo stesso, sarà andato piano piano identificandosi col Sé, ossia sarà diventato un Io che ha integrato, da ogni confronto costruttivo, molto inconscio personale e collettivo (naturale e sociale, materno e paterno). Recuperare il padre e la madre significa raggiungere il Sé.
La meta: il Sé transpersonale
L’eroe parte per i confini del suo mondo. Il suo Io si sposta progressivamente nel suo percorso iniziatico. Al di fuori del personale c’è il collettivo, il transpersonale. Il sé arriva alla fine a stare al confine del personale, a comprendere il personale (Io e Persona) e il collettivo (Anima e Ombra). Questa condizione può esser chiamata Sé transpersonale o superiore. Questo è il dono prezioso che l’eroe porta di ritorno dal suo viaggio e che è destinato all’umanità. Alla fine del viaggio l’eroe torna ad essere anonimo, uomo fra gli uomini. Ma nel suo segreto anonimato, anche se non ne inorgoglisce, “le armi non lo feriscono, il fuoco non lo brucia, l’acqua non lo bagna, il vento non lo inaridisce”.
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B4. IL MODELLO ENERGETICO
Concetti base
Jung definisce LIBIDO l’intera energia vitale, non l’energia sessuale, che ne è solo una parte. L’energia non verrà qui definita, resterà per noi una metafora legata ai concetti familiari di forza e di movimento. Libido è qui tout court energia. Possiamo immaginare due tipi di energia: attuale e potenziale.
L’energia ATTUALE è già in atto, già al lavoro, è dotata attualmente di forza e movimento; simile al concetto di lavoro in fisica che viene definito come L = F*s, “forza per spostamento”. La posseggono l’attenzione, l’affetto, la volontà, l’istinto, il desiderio.
L’energia POTENZIALE deve tale requisito alla sua posizione o condizione. La posseggono le disposizioni, gli atteggiamenti, le possibilità.
Due LEGGI FONDAMENTALI regolano le vicissitudini dell’energia: la legge di conservazione e la legge dell’aumento di entropia. Esse sono analoghe al primo e secondo principio della termodinamica.
La legge di CONSERVAZIONE DELL’ENERGIA afferma che lo sparire di un interesse conscio è sempre accompagnato dall’apparire di un altro interesse conscio o di un interesse inconscio o di un sintomo.
La legge dell’AUMENTO DI ENTROPIA dice che nella vita psichica avvengono sempre i processi più probabili i quali, se la vita fosse solo istintuale, porterebbero al livellamento energetico.
Differenza di potenziale
E’ la diversità di energia fra due oggetti che si trovino in diverse posizioni o condizioni. Immaginiamo due vasi comunicanti separati da una valvola a saracinesca e nei quali i livelli di liquido siano molto diversi: alto in uno, basso nell’altro. Esse hanno due energie potenziali diverse; o, in altre parole, esiste fra i due una differenza di potenziale. Se apro la saracinesca il liquido passa rapidamente dal vaso a livello alto all’altro vaso (esempio psichico: l’inconscio irrompe nella coscienza). Il travaso cessa solo al raggiungimento del livellamento. A questo punto la differenza di potenziale si è annullata.
Gradiente
Fra due punti diversi che hanno energia diversa esiste una pendenza metaforica che chiamiamo gradiente psichico, in analogia con la fisica. Un’energia tende a seguire spontaneamente il suo gradiente, tende a prendere una certa strada.

Utilizzo del gradiente
Trasformazione della libido in lavoro (simbolico). Se il liquido, nel suo scorrere da un vaso all’altro, incontra la pala d’un mulino ad acqua la fa girare e compie il lavoro di macina del grano. Se non incontra nessuno strumento utilizzatore questa differenza (o potenzialità) viene dissipata. Se la maggior potenza dell’inconscio la investo nel simbolo, o la sublimo, ottengo invece un lavoro psichico utile.
Ogniqualvolta ho due poli, con differenza di energia e tensione e gradiente fra i due, la libido corre da un polo all’altro. Se disinvesto un polo si investe il polo opposto. Chiamiamo tali coppie col nome di COPPIA DI CONTRARI O DI OPPOSTI. Esempio: coscienza e inconscio. La libido può correre dall’uno all’altro o viceversa, investendo l’uno o l’altro. Come abbiamo visto nel modello topico, l’Io e la Persona abitano la coscienza, mentre l’Ombra e l’Anima abitano l’inconscio.
Il movimento che investe (fa crescere) l’Io e la Persona lo chiamiamo MOTO PROGRESSIVO DELLA LIBIDO e viene attuato durante l’adattamento al mondo esterno, nel quale si disinvestono l’Ombra e l’Anima.
Il movimento che investe (fa crescere) l’Ombra e l’Anima lo chiamiamo MOTO REGRESSIVO DELLA LIBIDO e viene attuato durante l’adattamento al mondo interno nel quale si disinvestono l’Io e la Persona.
Inflazione dell’inconscio
In ogni momento le energie dalla Persona e dell’Io rischiano di cadere e trasferirsi verso le strutture basse (Anima e Ombra) instaurando un moto regressivo della libido. Di ciò non siamo consapevoli; ci rendiamo solo conto di esso, perché avvertiamo disturbi da inconscio inflato (pieno d’aria), gonfiato. Questi disturbi altro non sono che il rimbalzo o il ritorno del liquido libidico nel vaso conscio. Si instaura una specie di oscillazione se la saracinesca è aperta.
Ampliamento della coscienza
Se Ombra e Anima arrivano nella coscienza la travolgono se indesiderate e inconsce, ma la ampliano se volute e canalizzate. In questo secondo caso abbiamo adattamento al mondo interiore.
Travaso
È possibile effettuare questo TRAVASO controllato anche da un oggetto ad un oggetto analogo o simbolo. Esempio: disinvestire la madre e investire la madre terra. Posso in tal modo “cambiare faccia” ad uno dei due poli opposti.
Antinomia o dualismo
Prendiamo la coppia freudiana di opposti, natura e cultura, che Freud aveva posto in termini antinomici e inconciliabili. Per Freud l’Io era in balia del conflitto fra natura e cultura, fra scarico e arginatura, fra piacere e realtà.
Mediazione
Jung intravede una nuova possibilità per l’Io che è fatto di natura e cultura: quella di porsi come conciliatore o mediatore o terzo fra i suoi due contenuti. La conciliazione avviene tramite il trasferimento dell’investimento dalla natura al simbolo (oggetto analogo). La cultura, che non poteva rapportarsi con la natura, può invece farlo con il simbolo della natura. Il figlio che non poteva congiungersi con la madre può invece congiungersi con la madre terra. In questo modo madre, natura, inconscio possono venire alla coscienza e alla motilità.
Scarico
Avvenendo la coniunctio della cultura col simbolo, diminuisce la differenza di potenziale (ossia la tensione) e quindi cresce il benessere dell’Io che li porta in sé entrambi. Il simbolizzare ottiene la stessa distensione dello scarico, ma, a differenza di quello, è consentito dalla cultura.
Al di là del tabù dell’incesto
Coltivare e seminare la terra, analogo della madre che sostituisce, è l’investimento che accompagna la nascita dell’agricoltura e consente un’attività in cui si scarica un’energia di tipo sessuale. Possiamo andare così (simbolicamente) al di là del tabù dell’incesto. Non posso unirmi alla madre, ma posso unirmi al suo simbolo, alla terra. È superato (sul piano del simbolo) il divieto del padre/società/morale, che vieta al figlio di prendere contatto con la madre a causa della sua pericolosità.
Jung insegna al conoscente come trasformare l’oggetto conosciuto (come pericoloso) col simbolo. In questo modo avviene una sintesi potente e sconosciuta ad ogni altra psicologia: quella di passare dalla contrapposizione alla sintesi con una semplice TRASFORMAZIONE OPERATA DAL SIMBOLO. Basterebbe questa intuizione per fare di Jung un grande della psicologia. Naturalmente Jung aveva visto questo all’opera nei simboli della storia dell’umanità, nei miti, nei riti dei popoli.
Il simbolo è qualcosa di analogo a (o che sta per, o che viene posto in luogo di) qualcosa di sconosciuto, di inquietante, di divorante. È questo “ANALOGIA” ciò che consente la potenza del simbolo, la sua funzionalità, la possibilità di trasferire il numinoso.
Il trasferimento di QUALITÀ POTENTI E NUMINOSE avviene da qualcosa di vago e inquietante a qualcosa di analogo, ma ancora semplice e concreto. C’è qualcosa di potente e numinoso che passa dall’imago inquietante all’oggetto analogo, semplice e concreto, rendendolo numinoso e terribile.
Ma c’è un’altra domanda cui rispondere. Se, per esempio, L’IMAGO INQUIETANTE E PERICOLOSA è quella della madre, domandiamoci: che cosa l’aveva resa tale? Una ragazza, fino a ieri figlia, oggi divenuta madre, come diventa improvvisamente terribile e inquietante? E agli occhi di chi diventa tale?
Diventa tale agli occhi del figlio. E questo accade perché la madre non è più un oggetto concreto ma diventa agli occhi del figlio un’imago, un archetipo. Che cos’è che la fa diventare così? È LA LIBIDO DEL FIGLIO, PROIETTATA, A RENDERLA TALE.
Se questo ARCHETIPO è inquietante meglio allora rivolgersi all’acqua, alla terra, alla fertilità, più chiare e rassicuranti.
Nell’energetica junghiana sembra di assistere ad un DRAMMA EROICO E TERRIBILE; non ci sono più, qui, le fredde e tecniche considerazioni economiche freudiane. La differenza sta nel fatto che, queste immagini potenti, Freud non le vede nei nevrotici che cura. Jung invece cura psicotici che vedono oggetti terribili e grandiosi. Jung scorge una via per loro, per gli psicotici, nella attività simbolica.
Il soggetto junghiano non può accostarsi all’oggetto imago terribile, ma potrà accostarsi, dopo averlo costruito con l’attività simbolica, al sostituto analogo, divenuto simbolo della libido. Il figlio costruisce la madre simbolica e CONSUMA L’INCESTO con il simbolo di lei.
I due opposti così s’incontrano. È il proprio maschile che incontra il proprio femminile, la coscienza che incontra l’inconscio, l’Io che incontra l’Ombra, la Persona che incontra l’Anima. Non sono più i due opposti originari. Uno dei due è cambiato, trasformato nel simbolo e dal simbolo, e allora l’unione è possibile. Questa unione può essere religione, o arte o DIALETTICA esistenziale.
Solo uno dei due, l’Io, è artefice, artifex, e compie l’opera, facendosi costruttore di simboli, di relazioni dialettiche, di EVOLUZIONE.
L’Io, terzo che contiene i due conciliati, è ora un individuato. L’INDIVIDUAZIONE è un processo che consiste nel divenire capaci di dialettica fra cultura e natura risolvendola tramite il simbolo mediatore, costruito dal soggetto per trasformare l’oggetto terribile e vietato, che doveva restare altrimenti separato e antinomico.
L’incesto, vietato con l’oggetto originale istintuale, è ora possibile con l’oggetto simbolico. L’unione col simbolo è consentita e, a suo modo, soddisfacente. L’attività simbolica, apparentemente in antitesi con la vita istintiva, è proprio quella che le consente la sua unica possibilità compositiva e integrativa. Il simbolo risolve I PROBLEMI CENTRALI DELLA CIVILTÀ. Non solo infatti l’incesto si può consumare simbolicamente, ma anche il parricidio, favorendo la soddisfazione anche della volontà di potenza.
Anche la RELAZIONE TRANSFERALE (con il suo incesto) sarà possibile trasporla su un piano simbolico e fare unire Re e Regina, Adepto e Soror mistica. Analista e paziente potranno unirsi e avere un figlio: il risultato della cura, l’uomo nuovo, unito, l’androgino. Come analista e paziente in carne ed ossa i due non si possono unire, ma come re e regina sì.
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Il primo viaggio
di Luciano Rossi
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L’inconscio personale freudiano e il CCRT
L’ES è il polo pulsionale della personalità; i suoi contenuti sono inconsci, in parte ereditari e innati, in parte rimossi e acquisiti
L’IO (in parte cosciente, in parte inconscio).
– Nella Visione topica: l’Io è mediatore cosciente fra Es e Super-Io (fra natura e cultura).
– Nella Visione dinamica: l’Io è polo difensivo inconscio dall’angoscia istintuale e morale.
Il SUPER-IO è il censore dell’io, del genitore interiorizzato, giudice interno, cultura
CCRT o Tema relazionale conflittuale centrale
Che cosa è il CCRT o Tema relazionale conflittuale centrale? Chiarire questo concetto è importante per i primi due viaggi.
Il tema relazionale conflittuale centrale (CCRT) è il copione prevalente di un soggetto, si ripete sempre uguale ed è costituito da tre elementi:
1 – Un desiderio (o bisogno o intenzione) del soggetto
2 – (RO) la Reazione negativa, da parte degli altri o del genitore interno, di fronte al desiderio comprende: rifiuto, controllo, intrusione, minaccia, sfruttamento, dominio, critica, mancanza di rispetto, insensibilità, distanza, assenza, anaffettività, scarsa comprensione, ecc. Per quanto riguarda l’oggetto possiamo dire che per lo più l’altro rifiuta, contrasta, intrude, domina, ferisce, è distante, non aiuta, non capisce, non ama.
3 – (RS) la Risposta del Sé al rifiuto del mondo, che comprende: inibizione o paura o rabbia o dolore, ecc.. Il comportamento ripetitivo è una risposta personale (su misura dell’aggressione subita), che appartiene prevalentemente alle famiglie dell’inibizione o paura o rabbia-vendetta o dolore o vergogna o delusione, o insistenza nella richiesta.
Il CCRT si presenta in tre tipi di narrative rese dal paziente: le comunicazioni spontanee in seduta, le RAP, i sogni (è importante che anche i sogni vengano riferiti).
Che cosa è una RAP?
E’ una Intervista Paradigmatica di Aneddoti Relazionali. Vediamone una versione semplificata.
Per raccogliere le RAP si devono scrivere alcuni (almeno dieci) episodi relazionali liberi in cui sono presenti il soggetto e un adulto significativo e in cui, fra di loro, accade quanto segue:
1) Il soggetto desidera qualcosa o ha un bisogno o un’intenzione che si chiede di riferire esattamente.
2) L’adulto glielo nega o non ascolta o non capisce con una modalità che si chiede di riferire esattamente.
3) Il soggetto risponde a ciò con un comportamento che si chiede di riferire esattamente.
Esempio: Margherita (10 anni) ha il saggio ginnico annuale; desidera che i genitori vengano ad ammirare la sua bravura; i genitori (RO) si mostrano disinteressati; Margherita va a (RS) chiudersi in camera e piange.
Se il conflitto di Margherita qui esemplificato risulterà centrale, il compito della consapevolezza o meditazione d’insight sarà quello di osservare questo W (desiderio di essere ammirata) e questa RS (impulso a ritirarsi, chiudersi). Verbalizzare mentalmente: “Ho impulso a farlo, ma questa volta non lo farò”.
Dunque il CCRT è un conflitto fra i desideri W (Wish) e mondo RO (Risposta dell’Oggetto) (entrambi rimossi; il mondo diviene un oggetto-sé). Questo conflitto si ripete producendo una reazione copionale (RS, o Reazione del Sé ad RO) tesa a vincere l’angoscia. E’ importante dunque individuare la frequenza dei conflitti CRT per poter scegliere quello centrale, il CCRT.
I cinque passi personali
⦁ 1 – Confessione dell’Intero (soggetto + oggetto mescolati) in condizione di caos (Tesi). Nella condizione di tesi l’Intero è chiamato al compito di confessare.
⦁ 2 – CCRT e presa d’atto (Far luce o differenziare) (separazione o primo movimento, o negazione della mescolanza data ab initio)
⦁ 3 – Osservazione degli elementi del CCRT (Antitesi)
⦁ 4 – Elaborazione e Ripetizione del nuovo (Integrazione)
⦁ 5 – Stabilizzazione (Sintesi)
1 – Confessione (tesi)
⦁ Risale alla regola fondamentale di Freud. Essa dice: “l’analizzato è invitato a dire ciò che pensa e prova senza scegliere né omettere nulla di ciò che gli viene in mente, anche se ciò gli sembra sgradevole da comunicare, ridicolo, privo d’interesse e fuori posto”.
⦁ Per l’analista si tratta di educare il cliente a rinunciare ad ogni atteggiamento critico e ad accettare idee improvvise. Si tratta di una resa all’umiltà. Esprimere il proprio stato confusivo (tetico)
⦁ L’atteggiamento opposto a quello della confessione è rappresentato dalla resistenza. Questa ritarda l’inizio dell’analisi.
⦁ La resistenza fa parte della malattia e rientra nella valutazione del “saper essere”. Più resistiamo e meno “sappiamo essere”.
2 – Presa d’atto di sé e dell’Altro (RO) e passaggio all’incontro-confronto
⦁ Si tratta d’individuare e il proprio conflitto interno e il proprio deficit; e di isolare W, Ro, Rs.
⦁ Per conflitto interno intendiamo la lotta fra i propri desideri (W ed Es) e la risposta del mondo (Superego e mondo reale interiorizzato)
⦁ Per deficit intendiamo lo scarto fra i propri desideri, bisogni, aspirazioni e la risposta del mondo (W-RO = Δ)
3 – Osservazione e incontro
⦁ Imparare a concentrarsi con tecniche appropriate: occorre un lungo allenamento (meditazione vipassana)
⦁ Osservare costantemente il rimosso: desideri, bisogni, intenzioni, risposte del mondo (divenute in parte un oggetto-sé) e nostre reazioni, sullo sfondo del respiro. Apprendimento dell’attenzione introvertita.
⦁ Accorgersi della reazione incipiente prima della messa in atto e incontrarla.
⦁ Psicologia analitica e meditazione (riferimento ad Alchimia emotiva di Tara Goleman e a Mindfullness di Segal e altri)
4 – Accettazione del nuovo e ripetizione
⦁ Il rimosso (W, RO) viene visto, accettato ed espresso (verbalizzato)
⦁ L’impulso a ripetere il vecchio modo va osservato per non metterlo in atto. Osservare anziché reagire.
⦁ Il nuovo comportamento (RS’ = osservazione ed espressione) va ripetuto fino a farne una nuova abitudine (neurogenesi dell’adulto)
⦁ Integrazione fra RO e W (fra società e individuo).
5 – Sintesi
⦁ Il nuovo RS’ (osservazione e azione non automatica) diventa abituale
⦁ Si consolida l’integrazione alla coscienza di RO e W distinti (nella tesi i due sono fusi nell’inconscio)
⦁ Adattamento di W al mondo
⦁ Presa d’atto della Normalità e della sua insufficienza, quindi della necessità di un secondo viaggio
⦁ C’è integrazione di coscienza e inconscio personale, ma perdura l’antinomia coscienza-inconscio collettivo
Fine del primo viaggio
⦁ Nella prima parte del processo la dialettica quinaria è avvenuta fra la coscienza (Io junghiano) e il rimosso (W, Ro)
⦁ La coscienza si è posta in posizione dialogica col proprio inconscio differenziandosi dal W infantile e da RO (rifiuto dell’Oggetto-sé)
⦁ Ora può accettare di considerare i W come parti infantili di sé e rinuncerà alla loro gratificazione
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