La guerra finì così; mentre dormivo.

di Luciano Rossi

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Stiamo tornando.

La strada sale, su, fino al canale. A destra prati; e prati a sinistra. L’erba vi è alta, figlia d’un aprile piovoso e triste. Fa bello soltanto da poco. Oggi è un giorno così così. Una grandinata di fiori gialli (ranuncoli?) si sforza di metter gioia. L’aiutano i papaveri nella gran distesa verde.

Saranno le quattro del pomeriggio, le cinque al massimo. Arriviamo sul canale artificiale, che corre a mezza costa, quasi sul crinale. Camminiamo sull’argine. Me ne accorgo subito che c’è qualcosa che non va. Sull’argine del canale ci sono degli scavi. A intervalli regolari. Ogni venti o trenta metri ce n’è uno.

Stamattina non c’erano. Ecco cos’è che non va.

Immaginate. Un canale quasi asciutto che corre per chilometri, in piano, quasi sul crinale e guarda dall’alto la città. Da qui il panorama sembra una cartolina. Domini tutta la pianura. Guardato invece dai tedeschi che stanno in pianura, un po’ più sotto, quel canale lassù deve sembrare la riga piana all’orizzonte.

E adesso ch’è asciutto sembra una trincea scavata apposta. Alta un metro e mezzo. Questo se l’aveste vista al mattino. Alla sera in più ci sono i buchi.

Ogni venti trenta metri.

Come se fossero delle nicchie.

Ma sono tetre, e vaste, ripetute ferite che non annunciano niente di buono. Chi sarà stato a farli? Un esercito di talpe, invisibili, rapidissime. Stamattina non c’erano, adesso ci sono. Perché? In un giorno solo tutto questo? Anzi, in meno di un giorno?

Verso la pianura un grande scivolo, rivestito di rovi.

Poi tutta discesa fino alla città. Una pianura a toppe, rettangoli regolari cuciti da filari e carraie. Una coperta disegnata da vecchi contadini e donne. Con deboli forze e poco cibo. I giovani sono in Russia o in montagna.

Le stalle, i campi, sono diventate un mondo senza giovani.

Camminiamo sull’argine alto, con precauzione, attenzione. Non saprei dire se ci fosse il sole; però è come se si fosse oscurato qualcosa. Un’aria strana, come delle presenze. Come se qualcosa friggesse o crepitasse e intorno ci fosse odore di polvere da sparo. Un odore normale, un’aria normale, in tempo di guerra.

Ora, dei buchi, se ne accorgono anche gli altri scolari.

È da scuola che stiamo tornando. Insieme con la maestra. La maestra sembra una chioccia con i pulcini dietro. In fila. Solo che qui la fila è davanti. Ci vuol vedere. La maestra è mia madre. Io sono il figlio della maestra del paese. Ho sette anni.

Dei buchi se ne accorge anche lei, naturalmente.

Magari se n’era accorta già da un po’ e ha fatto finta di niente. Perché non aveva trovato una spiegazione. Lei che sa sempre tutto. Ecco perché era stata zitta. Glielo chiediamo. Lavori nel canale. Di pulizia. Sono stati gli operai. È evasiva.  Si vede subito che non lo sa.

Inquietudine fino a casa.

Lì c’è la spiegazione di tutto. Sulla porta del fienile, spalancata, c’è una mitraglia.

Il fronte della guerra non era mai sceso così in basso. Questa sera la linea di fuoco passava per casa mia.

È il 24 aprile del ‘45. Ma è chiaro che per ora quella data non vuol dire ancora niente. È un giorno come un altro di questa eterna guerra. Per me poi… che ho visto solo guerra, è un giorno come un altro della vita. Non è ancora domani. Solo domani si saprà che razza di giornata era stata il 24 aprile.

Ma dicevo della mitraglia.

Improvvisamente ancor più allarmata, mia madre si precipita in casa. La nonna ha il mal di cuore, e si sentono delle voci, venire da dentro. Molte. Soldati. Partigiani. Seduti in cucina, su per le scale. E fuori nel retro, dalla parte dell’orto.

Uno è gentile.

Lo chiamano comandante.

– Ci sistemiamo qui per la notte – ci informa stancamente. – Non è ancora detto, però. Da alcuni giorni s’è sparsa la notizia di una grande offensiva. Aspettiamo un attacco all’alba. Ma adesso … andiamo; abbiamo ancora molto da fare prima di notte.

Sapeva già che mia madre era la maestra.

Ci dice che lui era un ufficiale, prima. Mi prende in spalla. Ce l’ho anch’io un fucile, gli dico. Si fa serio.

– Vallo a prendere, magari ci occorre. Noi di armi ne abbiamo poche.

Il mio fucile è lungo mezzo metro, e fa un piccolo rumore quando spara.

Il comandante ride. Però non mi prende più in spalla. Deve andare, o forse si è stufato. La nonna è seduta nell’angolo; lo vede alzarsi. Si sorprende un attimo. Poi è sollevata, si vede. I militari in casa la spaventano. È sorda: non ha capito che torneranno. 

Mia mamma le fa:

– A che ora sono venuti?

– Era già buio

– Non è ancora buio adesso mamma

– Adesso voglio andare in camera. È tardi.

Non ricordo niente di più di quella sera.

Non so se tornarono nella notte o a che ora smontarono la mitraglia. Alla mattina non c’era più. Quasi per certo dormii tutta la notte. Come se fosse una notte qualunque. Si è così da bambini. Di fatto la guerra non la prendi sul serio. Non te la descrivono sul serio. Cercano di non spaventarti. Tutto aveva mantenuto la leggerezza del gioco.

Come quando avevano mitragliato la signora Praz.

Non avevo pensato né al suo dolore per il piombo in corpo, né al fatto che non vedeva più le cose del mondo o che era sotto terra. Era un gioco. Avevano fatto finta di spararle, e lei aveva fatto finto di morire.

Stessa cosa per la battaglia della notte. L’avrebbero combattuta coi fucilini giocattolo. Come il mio. Potevo dormire tranquillo. Ci pensava mia mamma.

Il mattino si risveglia in un silenzio innaturale.

L’altra maestra veniva da Parma.

La mattina del 25 arriva tutta eccitata. Subito lo dice a mia madre. Poi anche a noi. I tedeschi sono partiti nella notte. I preparativi non erano per la battaglia, ma per la ritirata.

E la mattina se ne passa così. Fino alla 11, quando passa il fattore del conte. Noi siamo fuori a giocare. Dice che la guerra è finita.

– Bambini c’è la pace.

– Che cos’è? Com’è?

Non l’avevo mai vista.

– Non sparano più. Si può girare tranquilli.

Come sarebbe a dire? Avevo sempre girato tranquillo. Tranne che ogni tanto ci si buttava nel fosso quando arrivava un aereo. Ma quello era un divertimento.

– Alla sera si può tener accesa la lanterna. Pippo non gira più alla sera.

Ci sentivamo come nelle tane. Correvamo tutti noi bambini in casa all’imbrunire. Ma qualche volta ci dovevano chiamare. I cartoni contro le finestre ci piaceva metterli noi. Il lume bassissimo: si girava una rotellina per abbassare lo stoppino.

– I soldati tornano a casa dalla Russia.

Ah sì, è vero. Ogni tanto lo dicevano che Marco è in Russia prigioniero. E Piero nei campi di concentramento. Tutte queste cose finiranno? Ma, se non succede più niente, di cosa parleremo?

– Non ci saranno più i rastrellamenti.

Non so se mi piaceva la pace.  Forse per la novità. Di lì a qualche giorno ce ne sarebbero state alcune.

– Potremo andare a trovare il babbo in montagna – aggiunse mia madre. I miei lavoravano lontano, si vedevano poco in tempo di guerra,  ma andavano d’accordo.

– Sì, il babbo, dai!

Ero entusiasta. L’unica volta che ero stato da lui era nel ‘40, prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Di quella permanenza avevo un ricordo dominante: il sasso di zia Valeria. Si tornava una domenica a piedi da messa e lei mi metteva per gioco su un sasso alto e di lì io, due anni avevo, dovevo saltarle in braccio. Lo ripetevamo all’infinito questo gioco.

– Non ci si chiuderà più in casa; i cortili avranno i cancelli aperti. Si entrerà liberamente nei cortili, in amicizia.

– Anche la carda? Apriremo anche il cancello?

Il cancello non fu aperto.

Sempre per via di quel famoso zio ch’era affogato nel canale.

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Nota bibliografica.

Per uno sguardo all’intera opera di Luciano Rossi vai a https://lucianorossi6.wixsite.com/scripta/la-scala-di-shepard.

Per tornare alla Homepage clicca su https://sfogliandoimparo.wordpress.com

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